martedì 18 dicembre 2012

Esiste DIO ?

Photobucket Non credo in un Padre che lascia il libero arbitrio,
che non interviene contro il male,
che non modifica in corso d'opera la sua creatura,
che non aiuta i suoi figli.
Nessun padre può farlo
E se lo fà ... allora per me non esiste.

Ho Hey

Ho Hey

Mille cuori le battevano in petto. 
Non sapeva dare un nome a ciò che vedeva, 
alle sensazioni nuove che provava, 
le parole che conosceva esplodevano una dopo l’altra.
Se c’era al mondo la possibilità di fare un’indigestione di vita
e di morirne, quello era il momento.

giovedì 6 dicembre 2012

Impara a dire .. NO!

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La libertà più grande è poter dire un NO.
E’ importante se vuoi veramente tenere in mano le redini della tua vita.
E’ difficile lo so, si cerca sempre di ricevere l’approvazione per ciò che facciamo dagli altri, e dire di no significa attirare a sè disappunto, e a volte rabbia.
Ma hai tutto il diritto di decidere per te stesso, e di gestirti come meglio credi.
E’ un’ottima cosa voler rendersi utili, e aiutare chi ne ha bisogno, evitando però che persone con pochi scrupoli se ne approfittino.
Impara a dire di no quando ce n’è il bisogno.
Affermerai la tua autorità e una certa dose di autostima, mostrando a tutti che non sei disposto a farti mettere i piedi in testa da nessuno.
Un no detto con cortese fermezza suscita stima, non rabbia.
Nella vita, molto spesso occorre fermezza.
Chiedere scusa, per esempio, se detto troppo spesso diventa segno di insicurezza e debolezza piuttosto che di cortesia e flessibilità mentale.
Chiedi scusa solo ed esclusivamente quando ti rendi conto di aver sbagliato.
Allo stesso modo è dannoso dire sempre di si.
Ancora una volta è importante essere diplomatici, ma quando non sei d’accordo dillo!
I tuoi pensieri non sono meno importanti di quelli degli altri, e meritano di essere espressi!

mercoledì 5 dicembre 2012

Bimbo che piange

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In Inghilterra nel 1980, si incominciarono a vendere alcune stampe di un dipinto raffigurante un bel bimbo con le lacrime agli occhi.
Infatti, il povero bimbo sarebbe stato raffigurato piangente perché costretto a posare dall'artista.
Negli anni subito successivi, ci furono gravi incendi che coinvolsero alcune abitazioni dell'Inghilterra e, ogni volta che i vigili del fuoco si recavano sul posto, trovavano tutto distrutto, tranne le stampe del bambino piangente, come se fosse immune alle fiamme.
Nel 1985, proprio per via di questi enigmatici incendi, molte di queste stampe vennero bruciate in grandi falò.

martedì 4 dicembre 2012

Oche

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L' oca viene apprezzata ormai da tempi remoti; la sua addomesticazione si perde nella notte dei tempi e, nell' arte, nella letteratura, nella storia, le sono stati riservati grandi onori.
Le prime tracce si trovano nell' epoca neolitica, dal sesto al quinto millennio prima della nostra era.
Tracce della notorietà dell' oca ci provengono anche dalle tombe e dai monumenti egizi, furono venerate in quell' antica religione.
Omero parla dell' oca nei suoi canti e Plutarco non fu da meno nell' elogio che ne fece; Plinio invece ci rammenta l' importanza che le oche ebbero nella famigerata vicenda del Campidoglio asserendo infatti che " l' oca vigila anche quando i cani dormono".
Sotto l' Impero Romano ci sono diverse testimonianze dell' allevamento di oche e così anche nelle altre civiltà durante e dopo la caduta dell 'Impero.
L' oca comune si è mantenuta pressochè simile nel piumaggio alla sua capostipite selvatica, ma l' intervento dell' uomo ha fatto si che si svuluppassero diversità di mole e di piumaggio; è assai diffusa l' oca dalla livrea completamente bianca mentre vi sono anche quelle pezzate.
In tutto il mondo ci sono piu di 100 razze suddivise in base alla loro mole che va dalla taglia piccola, alla media e a quella gigante.
Il peso di taluni esemplari va dai 4/5 kg per le razze leggere fino a raggiungere i 14/16 kg per quelle pesanti.
Le razze piu note sono : l'oca di Roma, che comprende anche la varietà col ciuffo creata in America; l' oca cignoide o della Guinea; l' oca di Schetland; l'oca di Normandia; l' oca di Poitou...
Tutte razze appartenenti alla specie di piccola taglia.
Poi vi sono quelle di media taglia che sono: l'oca Pilgrim; l' oca di Pomerania; l' oca di Touraine; l'oca d' Alsazia; la Sebastopoli ( col caratteristico piumaggio arricciato).
In fine vi sono le razze giganti : la famigerata oca di Tolosa, di cui esistono due tipi: quella industriale con bavetta e quella agricola senza bavetta; l' oca di Embden o Emden; l' oca Africana; l' oca di Bourbonnais.
A differenza delle anatre e ancora di piu dei gallinacei, le oche non presentano alcun dimorfismo sessuale (le caratteristiche somatiche pertinenti il sesso dell' animale), per cui è assai complicato discernere il maschio dalla femmina.
Solitamente nelle oche il maschio è piu grande e la sua voce piu acuta, rispetto alla femmina...
Ma esitono delle razze che posseggono un marcato dimorfismo sessuale che risiede nel colore del piumaggio.
Questi esemplari vengono definiti razze autosessate.
Il piumaggio del maschio è totalmente bianco, mentre quello della femmina è pezzato. Appartengono a questa categoria le oche Pilgrim, l' oca di Normandia e l' oca di Schetland.
Nel tempo all' oca così rinomata e con la sua aura antica, non gli furono tributati solo gli elogi e gli apprezzamenti di scultori, poeti, ma anche credenze popolari che la definiscono sciocca tra le sciocche!
Pare che questo detto derivi dal forte schiamazzo che ai piu sembra insensato!
Ma quei piu evidentemente hanno dimenticato la vicenda del Campidoglio e la proverbiale attitudine alla guardia che ne è derivata.
In verità a smentire questa credenza, ci sono diverse testimonianze di chi ha allevato le oche...
Marziale dice che fra tutti gli animali che popolano la corte del contadino essa è forse la piu sagace e la piu pevidente.
Plutarco narra della scaltrezza con la quale le oche sfuggirono agli attacchi numerosi delle aquile sui monti Tauri.
Ludwig Buchler racconta le gesta di un oca che aveva uno spiccato senso militare da montare regolamente di sentinella e da gridare i diversi segnali presso il reggimento nel quale si era " arruolata".
Mènault ricorda il caso di un oca che sapeva guidare e preservare dai pericoli una povera vecchia cieca.
Mentre il dott. Franklin scrive che un oca intenta nella cova da 15 giorni, sentì approssimarsi la fine e lasciò il nido alla ricerca di un' altra oca che la sostituisse nella cova...
La nuova oca seguì la moribonda sino al nido e vi si adagiò per continuare la cova fino alla schiusa e alla sucessiva cura dei piccoli nati; mentre la povera oca vecchia moriva.
In Romagna si dice che quando venne sparso nel Mondo il sale del giudizio, tra parti furono assorbite dalle oche, il resto venne assimilato dagli uomini!
L'oca è un animale capace di affetto e comprensione.
Non è raro infatti che un oca si affezzioni talmente al suo padrone da seguirlo ovunque, protestando con starnazzi vigorosi quando viene lasciata sola...
Riconosce la voce del suo padrone, la figura, e al suo apparire lo saluta con acuti allegri e chiassosi!
In molte regioni della Geramnia,ogni mattina guppi numerosi di oche escono senza alcuna guida e vanno ad aggregarsi disciplinatamente al grosso branco che verrà a costituirsi, guidato poi da un custode...
Alla sera, finito il pascolo, ciascun gruppo sulla strada del ritorno, si stacca da sè e rientra dal legittimo proprietario.

lunedì 3 dicembre 2012

Santo Stefano ..... perchè è festa

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Santo Stefano era ebreo di nascita, venerato come santo dalla Chiesa cattolica e dalla Chiesa ortodossa, è il protomartire cristiano cioè il primo ad aver dato la vita per testimoniare la propria fede in Cristo e per la diffusione del Vangelo.
Santo Stefano è fissato per il 26 dicembre, subito dopo il Natale, perché nei giorni seguenti alla nascita del Figlio di Dio, furono posti i “comites Christi “, cioè i più vicini nel suo percorso terreno e primi a renderne testimonianza con il martirio.
Così il 26 dicembre c’è Santo Stefano primo martire della cristianità, segue al 27 S. Giovanni Evangelista, il prediletto da Gesù.
E’ stato lo Stato italiano, nel 1947, a decidere di rendere festivo il giorno dopo Natale, mentre prima era un giorno normale lavorativo.
Il giorno di S. Stefano è festeggiato pure in Austria, Germania, Irlanda, Danimarca, Catalogna, Croazia e Romania.
Quindi il giorno festivo non è causato dalla ricorrenza del Santo, pur esponente importante dei Santi della Chiesa, ma esiste allo scopo di allungare le feste di Natale, come ad esempio il lunedì dell’Angelo, ossia la Pasquetta, che è stata stabilita per lo stesso motivo.

domenica 2 dicembre 2012

Compassione umana.

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Il camion che trasportava questa mucca fu scaricato una mattina di un giorno di settembre.
Dopo che gli altri animali furono fatti scendere dal camion, lei era rimasta indietro, incapace di muoversi.
I lavoratori del mattatoio le applicarono come d'abitudine il pungolo elettrico sulle orecchie per spronarla ad uscire dal camion, poi la picchiarono e le tirarono calci sul muso, nelle costole, sulla schiena, ma lei non si mosse.
Allora le strinsero una corda attorno al suo collo, legarono l'altro capo ad un bastone piantato nel terreno, e fecero avanzare il camion.
La mucca fu trascinata sul pavimento del camion e cadde a terra, rompendosi entrambe le zampe posteriori ed il bacino.
Rimase lì fino alle sette e mezza del pomeriggio.
Per le prime tre ore, rimase lì, urlando sotto il sole cocente.
Ogni tanto, dopo aver urinato o defecato, si trascinava con le zampe anteriori sul sentiero di ghiaia per spostarsi in un posto pulito.
Provò anche a spostarsi verso una zona ombreggiata, ma non riuscì ad arrivare così lontano.
Dopotutto, poteva muoversi solo per una decina di metri.
Gli operai del mattatoio non le diedero bere, e l'unica acqua che la mucca ricevette le fu data da Jessie Pierce, un'attivista locale.
Era arrivata verso mezzogiorno, dopo essere stata avvisata da una testimone che aveva assistito all'accaduto.
Dato che i lavoratori non si dimostrarono disposti a collaborare con lei, chiamò la polizia della contea di Kenton.
Il poliziotto che arrivò era stato avvisato dai suoi superiori di non fare nulla; se ne andò verso l'una del pomeriggio.
Un operaio del mattatoio avvisò l'attivista che aveva ricevuto dalla compagnia di assicurazioni l'autorizzazione per abbattere la mucca, ma che non l'avrebbe fatto finché lei non se ne fosse andata.
Jessie era dubbiosa sul fatto che l'operaio avrebbe mantenuto la parola, ma se ne andò verso le 15.
Quando tornò, verso le 16:30, trovò il mattatoio deserto.
Tre cani stavano attaccando la mucca, che era ancora viva.
Aveva subito numerose ferite, e l'acqua da bere le era stata portata via.
Jessie contattò allora la polizia di stato.
Quattro ufficiali arrivarono alle 17:30.
L'agente Jan Wuchner avrebbe voluto sparare alla mucca, ma gli fu detto che sarebbe arrivato un veterinario ad ucciderla.
I due veterinari dello stabilimento si rifiutarono di praticarle l'eutanasia; dissero che per preservare il valore della carne, la mucca non avrebbe dovuto essere uccisa. Un macellaio finalmente arrivò alle 19:30 e sparò alla mucca.
Il suo corpo fu venduto per 307 dollari.
Quando un operaio del macello fu intervistato da un reporter del Kentucky Post, disse:
"Non le abbiamo fatto nulla, dannazione!", e definì le attenzioni rivolte alla mucca dagli altri operai e dalla polizia come "stronzate".
Rise durante tutta l'intervista, dicendo che non c'era nulla di male nel modo in cui la mucca era stata trattata.
Ogni anno, milioni di polli, tacchini, maiali e mucche arrivano nello stabilimento o già morti oppure troppo malati o feriti per camminare.
Questo non è un caso isolato.
È molto comune che arrivino animali in questo stato, tanto che è esiste un termine ben preciso per definirli, "downer", cioè animali feriti, che non sono in grado di alzarsi e camminare.
Secondo le statistiche rese disponibili dalla stessa industria della carne, ogni anno milioni di polli, tacchini, maiali e mucche arrivano nei macelli o morti o troppo malati o troppo feriti per camminare.
Gli animali spesso si azzoppano o si ammalano dopo una vita di sfruttamento negli allevamenti intensivi, e dopo un viaggio in condizioni disumane verso il mattatoio, viaggio che spesso avviene in qualsiasi condizione climatica e senza cibo né acqua. Gli allevamenti non forniscono cure mediche individuali o eutanasia agli animali malati: è molto più economico lasciar soffrire, ed infine morire, gli animali.

sabato 1 dicembre 2012

Bere tanta acqua fà bene ?

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E’ luogo comune che l’assunzione di acqua in grandi quantità fa bene e che purifica l’organismo.
C'è gente che ogni mattina beve un litro di acqua e dopo contina a sforzarsi di bere partendo dal concetto che tale abitudine sia benefica e depuri l’organismo.
Purtroppo anche questo preconcetto non è vero.
Se veramente fosse così non si capisce perché il nostro organismo sia geneticamente regolato in modo di berne una quantità “normale”, in poche parole si potrebbe concludere che chi non beve in eccesso debba curarsi
E’ una cosa logica che l’acqua che ingeriamo debba essere anche eliminata e quindi in caso di introito esagerato i reni debbono fare un lavoro straordinario senza interruzione.
Nel momento in cui il rene non riesce più a eliminare tutta l’acqua ingerita possono cominciare i guai.
La necessità di bere in una persona sana dipende dalla sete e l’assunzione di acqua deve essere in rapporto al tipo di vita lavorativa, alla temperatura, al grado di umidità, etc.
Il nostro centro delle sete, che si trova nel cervello, riceve dei messaggi che invitano a bere o a non bere.
La regolazione dell’apporto di acqua dovrebbe dipendere dalla sete, ma se per motivi di convincimento personale consideriamo il bere in eccesso un toccasana, si può sviluppare uno stato di malattia.
L’acqua che viene ingerita viene eliminata dai reni , all’intestino e attraverso il sudore e alla fine si deve avere un bilancio tale che le perdite vengano compensate dall’introito.
Nel caso in cui tali organi non riescano più a smaltire tutta l’acqua ingerita, i nostri vasi (vene-arterie) saranno distesi in modo non fisiologico e questo darà un sovraccarico non solo ai reni ma anche al cuore e a tutto l’organismo.
La conseguenza sarà un aumento di peso, una ritenzione di liquidi talora un’ ipertensione e alla lunga si potrebbe verificare una compromissione più seria.
L’ assunzione di acqua in eccesso viene definita potomania e deve essere studiata per distinguerla da malattie in cui una persona è invece costretta a bere molto per compensare le perdite urinarie dovute a carenza di ormoni particolari (diabete insipido).
In questo ultimo caso il paziente beve tanto perché prima urina tanto.
Nella potomania il paziente deve urinare tanto perché prima ha bevuto tanto.
La quantità media di acqua da assumere da parte di una persona che fa una vita regolare in ambiente con temperatura regolare è sul litro al giorno, ma la cosa migliore è di farsi regolare dal centro della sete, che ci ricorda di bere di più o di meno.
L’assunzione naturalmente è più elevata se un soggetto suda molto, se fa sport, se lavora in ambiente caldo etc.
Di fronte a un soggetto in cui si ha il dubbio che vi sia un assunzione inappropriata di acqua il medico può verificarlo semplicemente valutando se il sangue e le urine siano troppo diluite e se i meccanismi di compenso ormonale siano alterati; in particolare gli ormoni antidiuretico, aldosterone e renina saranno abbassati.
Naturalmente se l’assunzione di acqua in eccesso viene consigliata per la cura di particolari malattie il discorso è diverso.
Ad esempio se vi è rischio di coliche renali l’acqua in eccesso meglio se associata a un diuretico può far ridurre il rischio di recidiva o se si debbano smaltire farmaci particolari può essere necessario introdurre più acqua. In questi casi si tratta di una malattia che il medico cercherà anche di risolvere al più presto.
E’ vero che l’acqua minerale gasata fa male?
Assolutamente no: possiamo tranquillamente bere qualsiasi tipo di acqua (minerale naturale gasata, di rubinetto…) a seconda dei nostri gusti.
Del resto tutti consumiamo bevande gasate o effervescenti di altro tipo o birra vino frizzante altre bibite.
Ci sono infine situazioni inverse in cui una persona beve troppo poco e questo succede soprattutto in persone anziane e sole e in questo caso è indispensabile che chi sta vicino ricordi loro di bere e controlli la situazione per il rischio di disidratazione o altre malattie associate.
Il consiglio che alla fine si può dare è che l’eccesso non fa bene in campo alimentare, soprattutto se una persona è sana.
Non è logico concentrarsi su problemi fisici a meno che essi non sussistano veramente e in questo caso si deve consultare il medico.

Dubbio ...

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Una notte mi alzo per andare in bagno.
Apro la porta e la luce si accende da sola.
Esco e la luce si spegne da sola.
Torno a letto e mi chiedo
: AVRO’ MICA PISCIATO IN FRIGO???

lunedì 26 novembre 2012

Logico Watson ...

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Un tizio passeggia per un parco con al guinzaglio una tavoletta quadrata dotata di ruote sulla quale stà un
cagnolino privo delle zampe.
Gli si avvicina una signora che fà
che carino questo cucciolo, ma che gli è successo?
- Ma niente, è nato senza le zampe poveretto - risponde il proprietario;
ohhh poverino.... ma è maschietto o femminuccia?
Come ti chiami amore?
Il padrone.....
è maschietto, ma non ha nome....
ohhh, come mai nessuno ti ha dato un nome, piccolino?.....
Il padrone...

e che glielo davo a fare un nome, tanto anche se lo chiami, non viene!!!

martedì 20 novembre 2012

ZOOM Infinito

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Un progetto di arte collettiva. Numerosi artisti, da più parti del mondo, hanno contribuito a creare questo magico e profondo mondo di immagini.E’ un lungo viaggio verso un universo surreale, che ricorda molto Dalì, dove si incontrano mostri, fate, oggetti volanti, scheletri, pupazzi, che navigano in un scenario apocalittico. Il lavoro,durato due anni di lavoro e coordinato da Nikolaus Baumgarten e Markus Neidel.
Si puo regolare velocità e direzione dello zoom dal lato sinistro del pannello.
Buona Visione CLICCA QUI

giovedì 15 novembre 2012

Volontà di gruppo

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Il Paradosso di Abilene è un paradosso in cui un gruppo di persone prende una decisione che va contro agli interessi di tutti gli individui del gruppo.
È causato da un problema di comunicazione interno al gruppo, per cui ciascun membro crede erroneamente che la propria preferenza sia contraria a quella del gruppo e non prova nemmeno a sollevare obiezioni.



Una tranquilla famiglia americana composta da una ragazza, dal marito e dai genitori di lei, stava trascorrendo un afoso pomeriggio estivo a Coleman nel Texas, in una bella casa con giardino, aria condizionata e piscina.
Erano in veranda e giocavano a carte.
In un momento in cui la conversazione languiva, il suocero se ne uscì con un "Che ne direste di andarcene tutti a cena ad Abilene?"
La ragazza, per compiacere il padre, subito disse "Mi pare una bella idea!".
Il marito, che pensava alle oltre 50 miglia da passare alla guida con quel caldo, ma non voleva contrastare il suocero, disse alla suocera "Se anche tu sei d'accordo potremmo metterci in macchina".
E la suocera "Certo che vengo volentieri, è da parecchio che non vado ad Abilene." Detto fatto si misero in cammino.
Il viaggio fu caldo, polveroso, e con molto traffico.
Ad Abilene cercarono una pizzeria per mangiare e dopo vari giri per trovare un parcheggio finirono in una trattoria messicana dove mangiarono male e spesero uno sproposito.
Sulla via del ritorno bucarono una gomma e stentarono a trovare una stazione di servizio che li aiutasse.
Dopo quattro ore si ritrovarono a casa accaldati, stanchi e delusi.
Erano sdraiati sui divani ed il vecchio azzardò ambiguamente "È stato un bel tragitto!".
La suocera disse che avrebbe preferito rimanere a casa ma che non voleva raffreddare l'entusiasmo degli altri.
Anche il marito disse che aveva accettato solo per compiacere gli altri tre.
La ragazza aggiunse "Dovevamo essere pazzi a metterci in macchina con questo caldo!". Concluse il suocero "Io l'ho proposto perché mi sembravate annoiati."

Morale: questo racconto tende ad attirare l'attenzione sul fatto che nella maggioranza dei casi l'essere umano si adegua istintivamente a quella che crede essere la volontà del gruppo.
Questo atteggiamento fa il paio con "Ma lo fanno tutti" che è la classica scusa di chi non trova altra giustificazione ad un proprio errore.
Con questo esempio invece si vuol spingere l'individuo ad una realistica ed indipendente valutazione di ogni situazione, scegliendo e proponendo quella che a suo giudizio è la soluzione migliore.

martedì 13 novembre 2012

Ingegno e Concentrazione

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Si racconta che durante una lezione di chimica un professore sia entrato in laboratorio con in mano un barattolo pieno di piscio dicendo: "Due buone qualità per un chimico sono ingegno e concentrazione. L'ingegno vi potrebbe far scoprire che un metodo semplice per scoprire la presenza di zuccheri nelle urine è assaggiarle". Detto questo mette un dito nel piscio e poi lo lecca. "Qualcuno vuole provare?" Uno studente che non crede che quello sia piscio ci mette dentro il dito e lo lecca, sentendo che era proprio piscio. Al che il professore continua: "La concentrazione invece vi potrebbe far scoprire che ho immerso il medio e ho leccato l'indice."

giovedì 1 novembre 2012

TALETE il primo filosofo.

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Egli nacque e visse a Mileto tra il settimo ed il sesto secolo a.C. e probabilmente non scrisse alcuna opera.
La figura di Talete sfumò ben presto nella leggenda: su di lui vi sono parecchie testimonianze.
Platone, per esempio, afferma che Talete era stato abilissimo nell'escogitare espedienti tecnici, mentre lo storico Erodoto ci racconta che Talete progettò e realizzò un canale per deviare un fiume dal suo corso e farlo rientrare più avanti nel suo alveo.
Sempre Erodoto gli attribuisce la predizione di un'eclissi solare, più precisamente quella del 585 a.C., ed una grande abilità come consigliere politico.
Altri autori fanno risalire a Talete la dimostrazione di alcuni teoremi di geometria, ma pare difficile che siano effettivamente suoi: tra questi ricordiamo la proposizione che il cerchio è dimezzato dal diametro, che è dimostrabile tramite la sovrapposizione delle due metà.
Anche per quel che riguarda l'eclissi solare, è davvero difficile che Talete l'abbia intuita tramite complessi calcoli matematici, che all'epoca non erano in grado di effettuare neppure gli astronomi babilonesi.
Pare che Talete, durante la sua permanenza egiziana, riuscì pure a misurare l'altezza delle piramidi tramite le loro ombre.
Nel Teeteto, Platone racconta che Talete, per contemplare le meraviglie del cielo, cadde in un pozzo e una donna lo derise per il fatto che voleva guardare il cielo lui che non vedeva neppure cosa c'era per terra.
Aristotele nella Politica narra che Talete, grazie alle sue conoscenze astronomiche e metereologiche, previde un abbondante raccolto di olive, fece incetta dei frantoi e in questa situazione di monopolio ricavò ingenti guadagni.
Stando a quel che Aristotele sostiene, in veste di storico della filosofia, nel primo libro della Metafisica, Talete è il capostipite della ricerca delle cause e del principio da cui sarebbe scaturita l’intera realtà nelle sue manifestazioni.
Per lui tutto, in ultima istanza, è costituito da acqua.
Non sappiamo esattamente che cosa Talete intendesse con questa affermazione, ma possiamo immaginarlo.
Probabilmente aveva in mente, per esempio, il ghiaccio, il vapore, l'umidità... Insomma, egli non poteva non notare l’assoluta centralità dell’acqua nella vita.
Egli osservò poi che il cibo degli esseri viventi è in buona parte costituito da acqua, così come i semi degli esseri viventi sono umidi.
E' anche possibile ipotizzare perchè Talete scelse proprio l'acqua come principio: intanto, come abbiamo appena detto, essa si trova praticamente ovunque, ma poi ha delle caratteristiche che la rendono ideale come principio esplicativo della realtà: è incolore, inodore, insapore...
In altre parole l'acqua non ha caratteristiche e quindi può assumerle tutte.
Per individuare un principio generalmente si scelgono cose che abbiano il minor numero possibile di caratteristiche: l'acqua per Talete, l'aria per Anassimene. Talete affermò che la Terra galleggiasse sull'acqua: secondo la concezione dell'epoca vi era un immenso Oceano, una Terra tonda e delle acque interne: su quest' Oceano infinito galleggiava, secondo le credenze dell'epoca, la Terra.
In Talete riscontriamo un forte influsso orientale: l'idea che la Terra galleggiasse sull'Oceano era presente in diversi miti dell'Oriente.
Per di più, come detto, sappiamo che lui stesso soggiornò in Egitto e probabilmente lì ebbe modo di assimilare questi miti.
Però Talete non si accontenta di accettare la tradizione mitologica, ma da buon filosofo argomenta le sue tesi.
Per lui l'acqua è sia sostanza (ciò che sta sotto, in Greco upokeimenon) sia essenza (ciò che effettivamente è, in Greco ousia): sotto il mutamento continuo (ghiaccio, vapore, umidità...) la sostanza rimane sempre la stessa: è sempre acqua.
Con Talete cominciano a farsi sentire i primi cenni di astrazione, ma è ancora molto legato al mondo concreto: è infatti interessante notare che la parola upokeimenon (la sostanza, ciò che sta sotto) avrà sì voluto significare in senso astratto che l'acqua nel corso dei suoi mutamenti rimane sempre acqua, ma era pregna di significati concreti: concretamente, infatti, la terra, secondo Talete, galleggiava sull'acqua e di conseguenza l'acqua sta sotto alla terra (il termine upokeimenon viene preso alla lettera).
A noi risulta strana questa mistura di concreto e astratto, ma all'epoca doveva essere normalissima.
Però verrebbe da chiedere a Talete: se la terra galleggia sull'acqua, l'acqua su cosa galleggia? senz'altro Talete avrebbe risposto che essa è il principio e perciò non vi è risposta.
Nella Metafisica Aristotele, ad un certo punto, dice - a riguardo dell'identificazione dell'acqua come principio - che forse Talete si è formato questa opinione vedendo che il nutrimento di tutte le cose è umido e che perfino il caldo deriva dall'umido e vive di esso: pare interessante, oltre al termine "forse" che denota un'ipotesi personale di Aristotele, il fatto che si parli di principio di "tutte le cose".
Si può avanzare un'obiezione: l'acqua non è il principio di tutte le cose, ma solo degli esseri viventi.
Va subito precisato che concetti che per noi sono distinti, ai tempi di Talete non lo erano: non avevano distinzione tra mondo vivente e mondo non vivente: noi l'abbiamo perchè siamo avvantaggiati da strumenti tecnici.
In mancanza di strumenti scientifici, la prima cosa che viene spontaneo fare per capire quali esseri sono viventi è osservare il movimento, la capacità di muoversi (Platone stesso definirà la vita come qualcosa che si muove da sè).
Se cogliamo nel movimento la distinzione tra vivo e non vivo (che è la distinzione più ovvia che ci sia), di conseguenza dovremmo attribuire a tutto il mondo, sebbene non nella stessa misura, la vita.
Spieghiamo il perchè servendoci di un esempio: anche una penna, se lanciata, si muove.
Dunque l'atteggiamento di Talete era di attribuire vita alla materia: si parla a tal proposito di "ilozoismo" (dal greco ulh, materia + zwa, animali).
In realtà si tende ad evitare questa parola perchè suggerisce che partendo dall'idea di materia inerte Talete e gli altri materialisti le abbiano attribuito la capacità di movimento e quindi la vita: per Talete, invece, la materia si è sempre mossa.
Una testimonianza ci dice che Talete, che fu il primo ad occuparsi di elettricità, affermò che il magnete fosse vivo perchè in grado di far muovere le cose (infatti attrae il ferro) e che avesse un'anima.
Viene da chiedersi perchè Talete parli proprio del magnete e non in generale della materia.
La risposta è che questi filosofi presocratici, per dimostrare, partivano da situazioni chiare per tutti (come il fatto che il magnete sposti il ferro) per poi estenderle all'intera realtà.
Voleva dimostrare che la vita non c'è solo negli esseri viventi, e per farlo si serve dell'esempio più chiaro e comprensibile per tutti.
Egli si serve della generalizzazione dell'esperienza: osserva attentamente la realtà e ciò che ha osservato in determinati casi particolari lo estende.
Per Talete, così come l'animale fiuta il cibo e si avvicina, così il magnete sente il ferro e si avvicina.
Talete affermò pure che "tutto è pieno di dei": sembra un'affermazione religiosa, il che per un filosofo sarebbe strano.
In realtà risulta evidente che il principio è la trascrizione in termine filosofico della divinità, in quanto principio è ciò da cui tutto deriva: dire che tutto è pieno di dei è lo stesso che dire che tutto è pieno di acqua.
Come accennavamo, Talete, oltrechè filosofo, fu anche grande matematico: calcolò l'altezza delle piramidi sfruttando l'ombra da esse proiettata ed elaborò il celebre teorema che porta il suo nome.
Il teorema di Talete dice che un fascio di rette parallele determina su due trasversali insiemi di segmenti proporzionali.
Talete muove dalla convinzione che l’arch, ovvero il principio da cui tutto deriva, sia l’acqua e – come poc’anzi notavamo - dalla convinzione secondo cui l’acqua sarebbe alla base di ogni realtà, fa addirittura conseguire la tesi – che a noi non può strappare un sorriso – secondo cui la Terra stessa galleggerebbe sull’acqua e si troverebbe pertanto in un equilibrio precario. Aristotele, con la curiosità filosofica che lo contraddistingue, prova anche a domandarsi come possa essere la concezione propria di Talete dell’acqua come causa materiale: pur in assenza di certezze (il che è testimoniato dal "forse" che Aristotele premette alla propria constatazione), non si può escludere che Talete sia addivenuto alle sue note conclusioni partendo dall’osservazione che l’umido sta alla base di ogni cosa - perfino del caldo – e che i semi stessi, da cui nasce la vita, sono anch’essi umidi. Da ciò ben si evince come Talete si basasse, nel proprio procedere filosofico, soprattutto sull’osservazione diretta dei fenomeni.
Aristotele sembra anche suggerire, in certa misura, che Talete, nella formulazione delle proprie tesi, tenesse conto di quella tradizione mitica – cantata nei poemi di Omero e di Esiodo – in cui Oceano e Teti non erano che i progenitori del mondo: in questo senso, Talete avrebbe sostenuto la stessa tesi dei poeti, ma da essi si sarebbe differenziato per aver dismesso la veste teologica e mitica e per aver indossato quella ipercritica della filosofia.
Fare di Talete un razionalista nell’accezione moderna – affermatasi da Cartesio in poi – sarebbe però sbagliato, anche perché su di lui influiscono concezioni animistiche che lo inducono a ritenere vivo il magnete – perché capace di muoversi in presenza del ferro – o ad affermare enigmaticamente che "tutto è pieno di dei" (frase facilmente convertibile in: "tutto è pieno d’acqua").
Anche se Aristotele trascura questo aspetto, noi possiamo tentare di spiegare l’importanza da Talete concordata all’acqua facendo riferimento alla particolare zona in cui egli è vissuto: Mileto era una città marinara, in cui l’acqua era di fondamentale importanza per i traffici e, dunque, per la sopravvivenza dei suoi cittadini.

lunedì 29 ottobre 2012

Scorie nucleari a spasso..

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Il 13% delle scorie radioattive francesi sarebbero attualmente stoccate nel complesso atomico russo di Tomsk-7, in Siberia e che ogni anno 108 tonnellate di uranio impoverito provenienti dalle centrali atomiche francesi verrebbero spedite in Russia e scaricate a cielo aperto.
I container vengono imbarcati a Le Havre, su navi che attraversano la Manica ed il Baltico, fino a San Pietroburgo, poi sono caricati a bordo di un treno che li porta fino al complesso atomico di Tomsk-7, in Siberia.
In questo impianto l'uranio viene sottoposto ad un processo di arricchimento, appena il 10% dell'uranio trattato viene così recuperato, e rispedito in Francia dove viene reintrodotto nel processo di produzione di energia.
Il resto, il 90% del materiale che arriva in Siberia, non è riutilizzabile, diventa di proprietà dell'impresa nucleare russa Tenex e rimane stoccato a cielo aperto.
Gli ecologisti russi e francesi di Greenpeace accusano il governo francese di abbandonare le proprie scorie radioattive in Russia, e di non essere capaci di gestire il plutonio, una materia molto pericolosa
Un video mostra in maniera inequivocabile e dettagliata contenitori con combustibile nucleare usato stoccati accanto ad una ferrovia in Siberia senza nessuna precauzione. Direttamente sul terreno.
Tutti questi eventi minano e screditano quel nucleare che i francesi stessi hanno sempre definito "sicuro".
Bisogna che la Francia nucleare si assuma le conseguenze delle sue attività e ne renda finalmente conto davanti all'opinione pubblica, i cittadini francesi devono in questa occasione prendere coscienza dell'accumulazione drammatica di diverse categorie di rifiuti e residui radioattivi prodotti dall'industria nucleare e dell'assenza di soluzioni per queste scorie.
Il rimpatrio in Francia delle scorie radioattive spedite in Russia obbligherà le autorità francesi a tentare di trovare un sito di stoccaggio, pur sapendo che è più difficile trovare un sito del genere in Francia che in fondo alla Siberia.
Questo permetterà di ricordare che, malgrado le manovre indegne, lo Stato francese non riesce, da molti mesi, ad imporre la realizzazione di un sito di interramento delle scorie radioattive: i tentativi fatti nell'Aube all'inizio del 2009 sono stati respinti dalle popolazioni locali e dalle associazioni antinucleari.
Quanto accade in Francia, dove oramai l'intero sistema nucleare sta svelando i suoi scheletri nell'armadio, è l'ennesima dimostrazione del fatto che non esiste una soluzione sensata al problema delle scorie.
Problema che nella nostra Italia viene addirittura affrontato con estrema superficialità, nel programma berlusconiano di rilancio del nucleare.
Infatti da noi si preferisce annunciare, con la pomposità di uno spot elettorale, nuove centrali, ma mai si racconta come si prevede di smaltire i rifiuti radioattivi.
Eppure, in preda ad una follia collettiva da parte delle forze di governo italiane, mentre il resto del mondo ragiona sul come abbandonare la produzione per via atomica di energia elettrica, da noi da qualche anno si è tornati a parlare dell'energia nucleare addirittura come di "un'energia verde".
Si racconta che la filiera nucleare è chiusa, che i materiali radioattivi sono riutilizzabili, che si ridurrebbe la dipendenza dal petrolio e si attenuerebbero le emissioni di anidride carbonica.
Peccato che la realtà sia quasi all'opposto.

venerdì 26 ottobre 2012

Armi non letali.

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I biologi si fanno un pisolino mentre il loro lavoro viene militarizzato.
Questa più o meno la traduzione del titolo di un forte articolo uscito su Nature.
L'autore, Malcolm Dando, professore presso l'università di Bradford, parte dall'episodio del teatro Dubrovka dell'ottobre 2002, quando le forze dell'ordine intervennero per salvare gli ostaggi chiusi nel teatro da un gruppo armato ceceno: per liberare 750 ostaggi gassarono il teatro con un agente chimico e ne uccisero 124.
Non si sa esattamente cosa ci fosse nell'agente chimico, ma pare che il preparato fosse a base di fentanyl, un oppioide usato anche come antidolorifico e droga ricreativa.
L'episodio ha mostrato come sempre nuove armi biochimiche siano in mano ai governi e come questi non si pongano eccessivi problemi nell'utilizzarle anche se non soprattutto all'interno dei propri confini.

Negli ultimi decenni, infatti, i paesi del G20 hanno affrontato quasi esclusivamente o guerre asimmetriche o rivolte interne e, in entrambi i casi, gli scenari di combattimento sono prevalentemente all'interno delle città.
Conseguentemente, il settore della ricerca volto a sviluppare armi per questo tipo di conflitti è in rapida espansione, mentre la preoccupazione di tutti é rivolta alle armi nucleari.
In particolar modo l'articolo di Nature si occupa della ricerca riguardante gli agenti biochimici detti non-letali, anche se spesso queste sostanze si rivelano alla fine letali come mostra il caso del Dubrovka.

Il salto qualitativo che l'autore descrive nello sviluppo di questo tipo di armi è il passaggio da un modello in cui le sostanze venivano sviluppate come medicine e poi se ne trovava un uso militare, a un modello in cui si salta il primo passaggio per sviluppare direttamente sostanze il cui unico uso è militare-poliziesco.

Un esempio di conversione medico-militare è il BZ, che negli anni '50 viene sintetizzato e studiato come farmaco volto a curare i dolori gastrointestinali ma che assunto in dosi forti causa delirio. Nel 1961 l'esercito americano lo sviluppa come arma.
Dal 1966 al 1990 l'esercito americano ha a disposizione “munizioni in grado di somministrare BZ”.
Il BZ causa allucinazioni e, per alcuni soggetti, blocca il sistema nervoso a livello tale che non si riesce a coordinare i movimenti o a formare pensieri coerenti.
Non è chiaro se sia mai stato usato in contesti non-sperimentali.

Adesso la linea guida é direttamente quella di identificare “snodi biochimici cruciali” del sistema nervoso umano e poi sviluppare sostanze in grado di bloccarli. Una review degli usi di varie sostanze psicoattive come armi non letali é The Advantages and Limitations of Calmatives for Use as a Non-Lethal Technique, che si può scaricare via Google Scholar.
Ricco d’informazioni al riguardo anche il sito delle conferenze europee sulle armi non letali (www.non-lethal-weapons.com/) con una gustosa introduzione che spiega come la Nato e l'European Defence usino il nome meno minaccioso di Non-lethal capabilities (grosso modo capacità non letali) per descrivere quelle che fino a ieri loro stessi chiamavano armi.
Si parla molto di taser ma anche ad esempio di come somministrare per via respiratoria sostanze che blocchino i centri nervosi “per controllare sommosse e manifestazioni” (Relazione V23 del terzo congresso, l'abstract è scaricabile dal sito).

Si osserva come al proliferare di queste armi corrisponda il grado zero del dibattito tra gli scienziati del settore e un regolamento deontologico - la Chemical Weapons Convention (CWC) del 1997 - che è solo una dichiarazione di intenti e non prevede meccanismi di controllo o sanzioni.
A chi dice che le armi non letali salvano vite, si fa notare come in realtà tali armi siano state usate soprattutto in combinazione con armi letali, come il gas CS in Vietnam, che veniva usato per far uscire dai rifugi i vietcong sui quali poi usare banali armi da fuoco.
E' interessante che l'esempio sia proprio il CS, un gas così tossico che è stato bandito proprio dalla CWC relativamente agli usi di guerra, ma che è tuttora in dotazione alla polizia italiana - come sanno tutti quelli che lo hanno respirato abbondantemente a Genova il 20 e 21 luglio 2001.

La conclusione è che se da un lato si deve modificare la CWC, rendendola uno strumento serio e soprattutto proibendo anche l'uso domestico e non solo quello di guerra per le armi chimiche, dall'altro è fondamentale che i biologi smettano di “sedersi sulle mani”, comincino a rendersi conto degli interessi per i quali lavorano e ad agire di conseguenza.

Le conseguenze di un livello di attenzione basso su questi temi si sono viste al G20 di Pittsburgh, dove sono state utilizzate armi sonore per disperdere i manifestanti senza che questi fossero minimamente preparati all'evenienza e senza causare particolari sussulti nell'opinione pubblica.
Nate Harper, il capo della polizia di Pittsburgh ha dichiarato al New York Times che questo era il primo test pubblico di armi soniche sul territorio americano, e che le altre polizie presto copieranno la polizia di Pittsburgh, dato che le armi soniche “sono state molto utili al loro scopo”

giovedì 25 ottobre 2012

DIO è onnipotente ?

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Essendo dio onnipotente, può fare ogni cosa.
Allora può dio creare qualcosa che non può spostare?
Sia che si risponda sì alla domanda, sia che si risponda no,
si dimostrerebbe che dio non è onnipotente,
o perché non è in grado di creare un simile oggetto,
o perché non è in grado di spostarlo.
Questo vuole mostrare che l'onnipotenza attribuita a dio non è vera.

domenica 21 ottobre 2012

La democrazia non è per il bene di poche persone

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Noi abbiamo una forma di governo che non guarda con invidia i vicini, e non solo non imitiamo altri, ma anzi siamo noi stessi di esempio a qualcuno.
Quanto al nome, essa è chiamata democrazia, poiché è amministrata non già per il bene di poche persone, bensì di una cerchia più vasta: di fronte alle leggi, però, tutti, nelle controversie, godono di uguale trattamento; e secondo la considerazione di cui uno gode, poiché in qualche campo si distingue, quanto per il suo merito, viene preferito nelle cariche pubbliche; né, d’altra parte, la povertà, se uno è in grado di fare qualche cosa di utile alla città, gli è di impedimento per l’oscura sua posizione sociale.
Come in piena libertà viviamo nella vita pubblica, così in quel vicendevole sorvegliarsi che si verifica nelle azioni di ogni giorno non ci sentiamo urtati se uno si comporta a suo gradimento, né gli infliggiamo con il nostro corruccio una molestia che, se non è un castigo vero e proprio, è pur sempre qualche cosa di poco gradito.
Noi che serenamente trattiamo i nostri affari privati, quando si tratta degli interessi pubblici abbiamo un’incredibile paura di scendere nell’illegalità: siamo obbedienti a quanti si succedono al governo, ossequienti alle leggi, e tra esse in modo speciale a quelle che sono a tutela di chi subisce ingiustizia e a quelle che, pur non trovandosi scritte in alcuna tavola, portano per universale consenso il disonore a chi non le rispetta.
Inoltre, a sollievo delle fatiche, abbiamo procurato allo spirito nostro moltissimi svaghi, celebrando secondo il patrio costume giochi e feste che si susseguono per tutto l’anno, e abitando case fornite di ogni conforto, il cui godimento quotidiano scaccia da noi la tristezza.
Affluiscono poi nella nostra città, per la sua importanza, beni d’ogni specie da tutta la terra, e così capita a noi di poter godere non solo tutti i frutti e i prodotti di questo paese, ma anche quelli degli altri, con uguale diletto e abbondanza come se fossero nostri. Anche nei preparativi di guerra ci segnaliamo agli avversari. La nostra città, ad esempio, è sempre aperta a tutti e non c’è pericolo che, allontanando i forestieri, noi impediamo ad alcuno di conoscere o di vedere cose da cui, se non fossero tenute nascoste e un nemico le vedesse, potrebbe trarre vantaggio; perché fidiamo non tanto nei preparativi e negli stratagemmi, quanto nel nostro innato valore che si rivela nell’azione.
Diverso è pure il sistema di educazione: mentre gli avversari, subito fin da giovani, con faticoso esercizio vengono educati all’eroismo, noi, invece, pur vivendo con abbandono la vita, con pari forza affrontiamo pericoli uguali. E la prova è questa: gli spartani fanno irruzione nel nostro paese, ma non da soli, bensì con tutti gli alleati; noi invece, invadendo il territorio dei vicini, il più delle volte non facciamo fatica a superare in campo aperto e in paese altrui uomini che difendono i propri focolari. Noi amiamo il bello, ma con misura; amiamo la cultura dello spirito, ma senza mollezza; usiamo la ricchezza più per l’opportunità che offre all’azione che per sciocco vanto di parola, e non il riconoscere la povertà è vergognoso tra noi, ma più vergognoso non adoperarsi per fuggirla.
Le medesime persone da noi si curano nello stesso tempo e dei loro interessi privati e delle questioni pubbliche: gli altri poi che si dedicano ad attività particolari sono perfetti conoscitori dei problemi politici; poiché il cittadino che di essi assolutamente non si curi siamo i soli a considerarlo non già uomo pacifico, ma addirittura un inutile.
Noi stessi o prendiamo decisioni o esaminiamo con cura gli eventi: convinti che non sono le discussioni che danneggiano le azioni, ma il non attingere le necessarie cognizioni per mezzo della discussione prima di venire all’esecuzione di ciò che si deve fare. Abbiamo infatti anche questa nostra dote particolare, di sapere, cioè, osare quant’altri mai e nello stesso tempo fare i dovuti calcoli su ciò che intendiamo intraprendere; agli altri, invece, l’ignoranza provoca baldanza, la riflessione apporta esitazione. Ma fortissimi d’animo, a buon diritto, vanno considerati coloro che, conoscendo chiaramente le difficoltà della situazione e apprezzando le delizie della vita, tuttavia, proprio per questo, non si ritirano di fronte ai pericoli. Per una tale città, dunque, costoro nobilmente morirono, combattendo perché non volevano che fosse loro strappata, ed è naturale che per essa ognuno di quelli che sopravvivono ami affrontare ogni rischio.
Per questo, o genitori dei caduti quanti qui siete, non vi compiango, ma cercherò piuttosto di confortarvi. Sapete, infatti, di essere cresciuti fra le più varie vicende: felice solo chi ebbe in sorte la più splendida delle morti, come ora costoro, e il più nobile dei dolori, come voi. Beati coloro che videro la gioia della vita coincidere con una morte felice. E se devo fare un accenno anche alla virtù delle donne, per quante ora si troveranno in vedovanza, comprenderò tutto in questa breve esortazione. Gran vanto per voi dimostravi all’altezza della vostra femminea natura; grande è la reputazione di quella donna di cui, per lode o biasimo, si parli il meno possibile fra gli uomini.
Ho terminato; nel mio discorso, secondo la tradizione patria, ho detto quanto ritenevo utile; di fatto coloro che qui sono sepolti hanno già avuto in parte gli onori dovuti. Per il resto, i loro figli da oggi saranno mantenuti a spese dello stato fino alla virilità: è questa l’utile corona che per siffatti cimenti la città propone e offre a coloro che qui giacciono e a quelli che restano. Là dove ci propongono i massimi premi per la virtù, ivi anche fioriscono i cittadini migliori.
Ora, dopo aver dato il vostro tributo di pianto ai cari che avete perduto, ritornatevene alle vostre case.

PERICLE 430 A.C.

La materia oscura

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In una notte stellata fuori città, al riparo dall'inquinamento luminoso, si possono ammirare i miliardi di stelle che formano la nostra Via Lattea e, con un po' di fortuna, persino la vicina galassia di Andromeda.
Ma le stelle e tutto quello che si osserva alzando lo sguardo al cielo é in realtà solo un quinto della materia totale: secondo gli astrofisici, i restanti quattro quinti sono composti di dark matter, materia oscura che non emette luce.
Un'entità finora mai osservata. I dati astronomici raccolti negli ultimi mesi e discussi al congresso Planck2009 a Padova potrebbero finalmente aprire le porte su questo mondo parallelo, che se confermato rivoluzionerà la nostra conoscenza dell'universo.

Correva l'anno 1975 quando Vera Rubin, analizzando le curve di rotazione delle galassie, trasalì dalla sorpresa: le stelle alla periferia delle galassie ruotavano più in fretta di quanto la legge di gravità prevedesse.
Per spiegare l'anomalia, Vera propose che la materia che emette luce fosse in realtà solo un quinto della materia totale presente nell'universo: il resto è sotto forma di materia oscura.
Da allora il paradigma della materia oscura si è dimostrato estremamente efficace nello spiegare la formazione di tutte le grandi strutture presenti nell'universo, dalla Via Lattea fino ai colossali ammassi di migliaia galassie distanti miliardi di anni luce.

La maggior parte della materia non si troverebbe dunque sotto forma di pianeti, galassie o plasma interstellare, in quanto tutti questi oggetti emettono fotoni, sotto forma di onde radio, luce o raggi gamma, e dunque si possono vedere.
La materia oscura, al contrario, interagisce solo tramite la forza di gravità che la sua massa produce.
Da almeno vent'anni i fisici delle particelle hanno sguinzagliato la loro fantasia per spiegare l'origine e le proprietà della materia oscura.
Le soluzioni non mancano e sono molto suggestive: il leit motiv è l'esistenza di nuove particelle, più pesanti di quelle finora osservate e dunque difficili da produrre in laboratorio.
La cosa forse più interessante è che l'esistenza della materia oscura è predetta in diverse forme da tutte le teorie che cercano di spiegare l'origine del bosone di Higgs e la fisica delle alte energie e rappresenta un punto di contatto tra l'astrofisica e la fisica delle particelle. Vediamo di cosa si tratta.

Alcuni scienziati hanno proposto l'esistenza di una quinta dimensione spaziale, arrotolata su un cerchio di piccole dimensioni.
Ognuna delle particelle attualmente osservate sarebbe la più leggera di una torre infinita di particelle sempre più pesanti, chiamati modi di Kaluza-Klein, e in particolare il fratello più pesante del fotone costituirebbe la materia oscura. Un'altra teoria, chiamata “technicolor”, prevede l'esistenza di una nuova forza, simile alla forza nucleare (detta “colore”) che incolla tra di loro i quark all'interno dei protoni.
I nuovi “techni-protoni,” molto più pesanti dei loro cugini atomici, fornirebbero la materia mancante dell'universo.
Infine, la teoria al momento più accreditata (e motivata dalla teoria delle stringhe) è la supersimmetria, che prevede l'esistenza di una nuova dimensione “quantistica” e discreta dello spazio tempo ed associa ad ogni particella esistente una nuova particella detta “superpartner,” con la stessa carica ma una massa più pesante e diverse proprietà statistiche.
Ad esempio, il fotone avrebbe come partner il fotino, una particella molto pesante che rappresenta uno dei candidati per la materia oscura.

In questi tre scenari, la materia oscura peserebbe come il bosone di Higgs o poco più e con un po' di fortuna potrebbe essere prodotta e studiata al Large Hadron Collider, il gigantesco acceleratore di particelle di Ginevra.
Potremmo dunque essere ad un passo dall'unificazione di due discipline finora molto diverse come l'astrofisica (distanze astronomiche) e la fisica della particelle (distanze microscopiche).
Ma la grossa sorpresa è arrivata negli ultimi mesi da un fronte inaspettato: i raggi cosmici, che potrebbero fornire il primo segnale di comunicazione con il settore oscuro.

Nuove osservazioni di raggi cosmici effettuate dal satellite FERMI, hanno evidenziato un numero di positroni ed elettroni di altissima energia nettamente superiore a quello previsto dagli attuali modelli astrofisici.
Questi dati, uniti alle osservazioni dell'esperimento italiano PAMELA sul flusso di positroni nei raggi cosmici, rappresentano la prima chiara anomalia di questo tipo.

Per spiegare questa anomalia ci sono essenzialmente due diversi scenari.
Secondo gli astrofisici basterebbe la presenza di una pulsar nelle vicinanze del nostro sistema solare.
Le pulsar sono oggetti stellari estremamente affascinanti: minuscole stelle di neutroni, che irradiano energia sotto forma di raggi gamma.
Questi fotoni, a loro volta, creerebbero coppie di elettroni e positroni dell'energia osservata da FERMI, ed ecco spiegato l'eccesso di raggi cosmici.
Al momento però gli astronomi non hanno ancora identificato l'ipotetica pulsar sorgente.
Per i fisici delle particelle l'origine dell'anomalia sarebbe invece la materia oscura in persona, che grazie ad una serie di reazioni a catena, produrrebbe fotoni ad altissima energia, capaci di generare il famigerato eccesso nel flusso di positroni.
Secondo il fisico americano Neil Weiner, dell'Università di New York, la materia oscura apparterrebbe ad un nuovo “settore oscuro” dell'universo.

Quest'ultimo scenario è molto intrigante: suggerisce la presenza di una complessa struttura all'interno del settore oscuro, con “particelle oscure” e “forze oscure”, del tutto simili a quelle presenti nel mondo visibile.
Weiner rovescia i ruoli e arriva a ipotizzare l'esistenza di “Mr. Dark Matter”, un alieno che vive nel settore oscuro e studia l'astrofisica oscura.
Mr. Dark Matter è molto sorpreso dalle sue osservazioni, perché ha scoperto che la materia oscura, di cui è fatto, rappresenta solo i quattro quinti della materia presente nella sua Via Lattea Oscura e arriva ad ipotizzare l'esistenza di una fantomatica “materia visibile” che non interagisce con le forze oscure ma solo con la gravità.
Chissà che un giorno, quando grazie a LHC avremo carpito i segreti del settore oscuro, non ci si possa mettere in contatto con Mr. Dark Matter: occupiamo entrambi la stessa porzione di spazio, ma ancora non riusciamo a comunicare...

sabato 20 ottobre 2012

Africa addio oro blu'...

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Le acque del Mar Morto si stanno ritirando sempre più rapidamente: alla media di 98 centimetri.
Un deficit idrico che interessa tutto il pianeta e che nel 2020 arriverà a colpire la metà della popolazione mondiale.
Tre miliardi di persone: uomini, donne e bambini che non avranno accesso a quel bene comune e a quel patrimonio dell'Umanità che è l’acqua.
Un deficit globale che investe gran parte del mondo, che in Nord Africa è già emergenza e che in Medio Oriente è ormai una realtà quotidiana; risultato di una domanda che negli ultimi 50 anni è triplicata, di una politica dell’ambiente che ha influito in modo determinante sull’aumento della temperatura terrestre, sul prosciugamento dei fiumi, sulla scomparsa dei laghi, sull’evaporazione dei bacini e su una diversa distribuzione delle piogge.

In Medio Oriente l’esaurimento delle acque sotterranee non risparmia nessuno: nella regione pakistana del Beluchistan settentrionale il livello dell’acqua sta diminuendo ad un ritmo tale che entro il 2020 la capitale Quetta potrebbe rimanere completamente a secco.
Negli ultimi decenni lungo la pianura del Punjab la profondità dei pozzi è cresciuta ad una media di 2 metri all’anno e in Iran il prosciugamento delle falde costringe intere comunità contadine ad abbandonare le campagne; nell’Arabia settentrionale l’agricoltura è ormai sopraffatta dalla sabbia e negli ultimi quindici anni la raccolta del frumento è scesa del 35%, mentre nello Yemen occidentale l’oro blu viene cercato a profondità che sfiorano i due chilometri, misura normalmente utilizzata per l’estrazione del petrolio.

In Egitto il Nilo è passato dai 32 miliardi di cubi metri d’acqua, scaricati nel Mediterraneo negli anni sessanta, agli attuali 2 miliardi: un dato che spiega il crollo della produzione agricola e l’aumento vertiginoso dell’ importazioni di cereali.
In Siria ed Iraq la riduzione del flusso d’acqua del Tigri e dell’Eufrate ha già causato la scomparsa dell’80% delle aree umide che un tempo rendevano florida la “mezzaluna fertile”, mentre il lago di Tiberiade e il Mar Morto, entrambe alimentati dal fiume Giordano, si stanno lentamente ma inesorabilmente prosciugando.

In questa nuova guerra per la sopravvivenza la Giordania, uno dei 10 paesi più poveri al mondo in quanto a risorse idriche, rappresenta forse il caso più emblematico, il precursore di quello che da qui a pochi anni potrebbe accadere in tutta la regione mediorientale. Ad Amman la scarsità dell’oro blu si sta trasformando in un vero e proprio business, la leva che in questo momento muove l’economia giordana: la fornitura governativa è praticamente settimanale e ogni giorno, presso i distributori privati, si assiste al rifornimento di dozzine di autocisterne che, dopo quattro o cinque ore di fila, trasportano l’acqua in città per la vendita al dettaglio.

La Giordania con un territorio desertico per il 92% è alla fine, le risorse idriche non sono alimentate: “Non abbiamo acqua di superficie, ne riserve idriche o laghi; niente di niente.

Negli ultimi anni il fiume Giordano ha perso gran parte della sua portata, soprattutto per effetto dello smodato sfruttamento delle acque e a causa delle dighe costruite lungo il suo corso da Siria, Israele e Giordania.
Il primo a pagare la crisi del fiume, il cui destino va di pari passo con la crescita demografica e con l’aumento dei consumi agricoli e industriali dei tre paesi, è sicuramente il Mar Morto, il bacio naturale che molti ormai danno per spacciato. Ad aggravare la situazione c’è poi il clima politico che dal 1948 imperversa nel vicino Medio Oriente.

Siria ed Israele continuano a contendersi le alture del Golan mentre Amman accusa Gerusalemme di non rispettare le clausole dell’accordo di pace sottoscritto nel 1994 a Wadi Arava. Il trattato, nel quale si fa specifico riferimento al regime di gestione comune delle acque, prevede infatti lo sviluppo di iniziative comuni affinché vengano trovati i mezzi e le risorse per fornire alla Giordania 50 milioni di metri cubi d'acqua potabile all'anno.

Le autorità del regno Hashemita di Giordania sono certe che a questo punto, oltre agli interventi locali finalizzati al recupero dell'efficienza idrica delle rete nazionale, l’unica strada percorribile è quella di ottenere l’acqua attraverso due grandi progetti: la realizzazione di una conduttura lunga 320 chilometri dove dovrebbe essere incanalata l’acqua estratta dai bacini sotterranei di al-Disi, le falde fossili che la Giordania condivide con l’Arabia Saudita, e lo sfruttamento del Mar Rosso, 200 milioni di metri cubi di acqua marina destinati per metà alla desalinizzazione per uso civile e per il 50% al Mar Morto.

Problemi quindi, per una situazione di emergenza che non può più attendere, che entro qualche anno potrebbe trasformarsi in dramma, minare la stabilità sociale ed economica dell’intera Giordania.
Ma che non si fermerà ai confini, perché come la religione e le ideologie, anche il bisogno d’acqua muove milioni di persone.

lunedì 15 ottobre 2012

Animali mai visti...

MAI VISTI !!


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Alpaca

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Yeti Crab

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Star Nosede Mole

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Proboscis Monkey

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Pink Fairy Armadillo

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Hag Fish

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Frill Necked Lizard

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Ettarsier

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Emperor Tamarin

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Dumbo Octopus

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Blob Fish

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Aye Aye

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Axolotl

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Angora Rabbit

martedì 9 ottobre 2012

Bonnie e Clyde

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Loro sono un duo fuori dal comune: nella contea inglese di Norfolk vivono due border collie, dei quali uno è cieco e l'altro un cane da guida per ciechi.
Suona come una di quelle storie strappalacrime Disney raccontate da Hollywood: un cane cieco e il suo cane da guida, Bonnie e Clyde, questi i loro nomi, aspettano in un canile inglese l'arrivo di un padroncino.
Gli inseparabili collie vagavano sotto la pioggia incessante nelle campagne inglesi fino a quando, nei pressi di una strada provinciale, sono stati catturati dai collaboratori di un centro soccorso animali.
All'inizio i volontari del canile non riuscivano a spiegarsi il motivo per cui uno dei due seguiva costantemente l'altro.
Poi la scoperta: Bonnie è il cane guida di Clyde, rimasto cieco a causa di una malattia degenerativa.
Quando Clyde si sente insicuro, comincia a tastare dietro a Bonnie e poggia il suo muso sulla sua schiena, così che possa guidarlo, si fida completamente di lei.
Clyde ha circa cinque anni, Bonnie due o tre.
Entrambi hanno il pelo bianco e nero. E la loro storia ha fatto il giro del mondo.
Da dove arrivino, non è ancora chiaro.
Non avevano nessuna piastrina quando sono stati trovati.
I due collie non possono vivere l'uno lontano dall'altro, se lei corre, subito tende a fermarsi, per essere sicura che lui sia con lei.
Quando non c'è la compagna, lui non ha il coraggio di fare neanche un passo,
e lei lo tiene perennemente sott'occhio.
Se li vedi insieme nessuno si accorge che uno dei due non ha la vista.
E la vita scorre normalmente.

giovedì 4 ottobre 2012

La meta di Bobby

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Non c'era più nulla da fare. Bobby, ormai in agonia, stava morendo, a soli 24 anni, per complicazioni polmonari in seguito a un'operazione di appendicite.
Fu allora che il poveretto, trovando chissà dove la forza, ebbe un piccolo sussulto. Si intuì un vago movimento delle labbra, forse il tentativo di dire qualcosa. Qualcuno, si avvicinò al letto.
"Vuoi dire qualcosa, figliolo?". "Sì", la risposta, pronunciata con le ultime molecole di ossigeno rimaste nei polmoni: "Io quella meta l'avevo segnata". Subito dopo, Bobby morì.
I presenti rimasero attoniti, l'animo diviso tra il dolore per quella prematura morte e la curiosità di quell'ultima frase.
Subito si pensò al delirio dettato dall'agonia. Ma non era così, e il mistero di quelle parole venne in fretta svelato.
Perché in Nuova Zelanda, nel 1908, nessuno ignorava una partita di poco più di due anni prima. E nessun appassionato di rugby poteva dimenticare quanto accaduto il 16 dicembre 1905.
Era, quella, la data dell'ultimo incontro degli All Blacks nella tournée in Gran Bretagna.
Gli All Blacks sono la Nazionale della Nuova Zelanda: la locuzione "Tutti Neri", per il colore delle maglie della squadra, appare per la prima volta il 12 ottobre 1905 sulle colonne del Daily Mail. "Sessantatré punti a zero a una delle più forti selezioni del Nord, l'Hartlepool club: non ci sono parole per illustrare la bravura degli All Blacks", scrive John Buttery. ignaro in quel momento di consegnare la definizione alla storia.
In realtà pare che il termine "All Blacks" fosse già stati utilizzati in altre due circostanze, prima dal The Express and Echo, un giornale di provincia, quindi dal neozelandese Northern Daily Mail. Ma ci sono versioni contrastanti persino sul titolo del Daily Mail di quel 12 ottobre. Buttery, infatti, aveva forse parlato di "All Backs", tutti indietro, considerando in pratica i neozelandesi una formazione così veloce da essere composta di soli trequarti.
Ma una volta arrivato il pezzo in tipografia qualcuno pensò a un errore di battitura. Quel "Backs" venne così corretto in "Blacks", neri, visto che molti in Inghilterra pensavano ai neozelandesi come a una popolazione di colore.
"All Blacks", dunque, e l'ignaro e sconosciuto tipografo dava un nome a una formazione già epica.
La squadra arrivata dagli antipodi, era infatti nota sino a quel momento come "Colonials", termine che nasceva naturale nel periodo di massimo splendore dell'Impero britannico, di cui la Nuova Zelanda faceva parte.
In quel Tour gli All Blacks danno spettacolo, attirando folle immense alle partite e seppellendo di punti gli avversari: nell'incontro con l'Inghilterra, vinto per 15-0, allo stadio del Crystal Palace ci sono 45.000 spettatori paganti e, secondo la stima fatta dagli organizzatori, almeno altri 30.000 che in qualche modo riescono a sfuggire al passaggio al botteghino pur di ammirare i favolosi "Tutti Neri".
Poco male per il cassiere, che al termine della giornata registrerà un incasso di 1039 sterline, una somma folle all'epoca.
Si arriva, dunque, al 16 dicembre, ultima delle undici sfide previste in appena 31 giorni.
Gli All Blacks sono attesi in Galles, dove il rugby è una religione. Alla stazione di Cardiff la polizia deve trattenere la folla che vuole vedere da vicino i giocatori che hanno distrutto inglesi, scozzesi e irlandesi.
In Galles, infatti, già allora giocano tutti, specie i rudi minatori, che appena risaliti dai cunicoli si ripuliscono dal carbone e vanno a esibirsi con la palla ovale.
E quell'anno la Nazionale aveva conquistato la "Triple Crown", la tripla corona, avendo battuto Irlanda, Scozia e, quel che più conta per i gallesi, l'Inghilterra.
In una giornata grigia e fredda 47.000 spettatori si accalcano così all'Arms Park di Cardiff.
Uno stadio, si dice, che in Galles non si trova: perché è il Galles a essere dentro l'impianto e non viceversa.
Vogliono vedere la gara in cui si sfidano quelle che, potenzialmente, sono le migliori nazionali al mondo.
Una partita che si annuncia come la più difficile della tournée degli All Blacks: la stanchezza per i molti incontri sostenuti, gli infortuni subiti (sono assenti tre dei migliori, Smith, Stead e Cunningham) e le qualità del Galles rendono durissimo il compito dei neozelandesi.
Proprio per questo c'è nervosismo già prima del calcio d'inizio.
Le controversie cominciano dalla designazione dell'arbitro: i neozelandesi rifiutano di sceglierne uno nel quartetto proposto dai gallesi.
E altrettanto fanno i padroni di casa con i quattro nomi suggeriti dagli ospiti.
Alla fine, la scelta cade su uno scozzese, John Dallas.
Quest'ultimo è stato un eccellente giocatore con il club dei Watsonians e con la sua Nazionale: costretto a interrompere l'attività agonistica in seguito a una malattia, decide di proseguire l'avventura nel rugby come direttore di gara.
Ma nel 1905 Dallas arbitra da sole due stagioni e con appena 27 anni è addirittura più giovane dei capitani delle squadre.
Si teme, insomma, non abbia sufficiente esperienza per dirigere uno scontro di quel livello.
Ad Arms Park è subito battaglia, ma gli eserciti non sono in equilibrio. Da una parte gli All Blacks, ormai stremati dalle tante partite disputate. Dall'altra, in pratica, tutto il Galles: quindici uomini in campo, 47.000 in tribuna. Nel freddo di Arms Park, sul fango del terreno, le difese sembrano inizialmente avere la meglio sugli attacchi.
Poi, grazie alla solidità dei propri avanti e alle qualità dei due mediani, quello di mischia Dickie Owen e l'apertura Percy Bush, i gallesi sembrano dilagare, coronando al 25' la loro superiorità.
Un'azione velocissima: da Owen a Cliff Pritchard, quindi a Rees Gabe. è quest'ultimo a servire Teddy Morgan, ala dei London Welsh, un piccoletto con la faccia da adolescente.
Evitato il placcaggio di McGregor, Morgan va in meta.
Sotto di tre punti (tanto, infatti, valeva allora la meta), i neozelandesi si scatenano. Fiaccati dalla lunghissima tournée, buttano in campo più la rabbia per essersi ritrovati sotto nel punteggio che la lucidità. Ma la furia degli "All Blacks" basta a cambiare il corso della partita.
Adesso il campo è sommerso da una crescente marea nera. Con orgoglio, i gallesi si assiepano a difesa della propria linea di meta: Land Of My Fathers, la terra dei miei padri, è il titolo dell'inno nazionale.
E quella linea bianca adesso è davvero il confine di quella terra, da difendere come in trincea. Ma non c'è niente da fare. Dopo una rimessa laterale, la palla arriva a Billy Wallace.
Quest'ultimo è stato il miglior realizzatore nella tournée degli All Blacks: merito delle sue mete, ma soprattutto della sua precisione nella trasformazione dei calci. Wallace, ricevuta palla, inizia a correre. Vede davanti a sé la linea di meta, ma anche l'arrivo di un avversario, Winfield. La strada è sbarrata: Wallace, tutto spostato su un lato del campo, non può ricevere sostegno alla sua sinistra.
Guarda allora a destra. Lì, nel frastuono di 47.000 voci che sembrano poter disintegrare l'Arms Park, ne distingue una: è quella di Bobby Deans.
Il ventiduenne talento degli All Blacks sta tagliando verso il centro, con una velocità pari solo a un'altra cosa: il volume della sua voce.
Perché Bobby urla talmente forte da farsi sentire da Wallace: "Billy, Billy…", è il grido di Deans, che si sta sbracciando per chiedere il pallone.
Wallace non solo ha identificato la voce, ma ne distingue anche il proprietario. Adesso vede quell'unica maglia nera in mezzo a quelle rosse del Galles e lì indirizza il pallone, che Deans è pronto a far suo. La linea di meta è vicina: il ventiduenne centro del Canterbury si infila in mezzo alla marea rossa. E l'unica maglia di quel colore in grado di seguirlo appartiene a Morgan.
Proprio lui, l'autore della meta che tre minuti prima ha portato in vantaggio il Galles. è un duello di velocità, ma anche di tempi: e Morgan arriva a placcare Deans proprio quando il neozelandese schiaccia la palla in meta.
O, almeno, questo è quello che credono Deans e i neozelandesi. Perché l'arbitro, che si ripara dal freddo con una palandrana e indossa scarpe utili contro il fango ma che impediscono una corsa veloce, è piuttosto distante dall'azione: e quando arriva sul posto, non concede la meta. Eppure Deans aveva urlato "toccato", come si usava allora tra i giocatori dopo la segnatura. Da poco il rugby aveva infatti introdotto la figura dell'arbitro, giudicata all'inizio inutile in uno sport praticato da galantuomini: a regolare le partite provvedevano gli stessi capitani delle squadre. Prevaleva insomma lo spirito sportivo, e proprio l'assenza del direttore di gara imponeva di segnalare a voce la meta da parte dell'autore.
Un'abitudine che i giocatori di inizio Novecento avevano conservato, nonostante l'introduzione della figura dell'arbitro.
Quella volta la segnalazione di Deans non bastò: nel placcaggio il centro neozelandese era stato probabilmente trascinato indietro, e prima dell'arrivo dell'arbitro Dallas il pallone spostato dal punto in cui era stato schiacciato al terreno.
Sono le 15.28 quando il direttore di gara decide di non concedere la meta. Un'ora che, insieme alla data del 16 dicembre 1905, è destinata a restare nella storia del rugby.
Nel resto della partita gli All Blacks non furono infatti in grado di segnare: battuti per 3-0, subirono così l'unica sconfitta di una tournée che li aveva sin lì visti solo vincitori.
Ma era evidente che se quello era il punteggio della partita, la storia del match non si era certo chiusa con il fischio finale di Dallas.
E visto che le regole non scritte del rugby impongono ai giocatori di non contestare sul campo le decisioni arbitrali, Deans provvide allora a far conoscere la propria versione dei fatti attraverso questa dichiarazione al Daily Mail: "Ho schiacciato la palla 15 centimetri oltre la linea, e alcuni giocatori gallesi hanno ammesso la meta. I miei compagni di squadra Hunter e Glasgow possono confermare che sono stato tirato indietro prima dell'arrivo dell'arbitro". Non è una frase da poco.
Anzitutto per l'assoluto fair-play che esiste nel rugby, e per la fama di cui gode Deans.
Cresciuto in una famiglia colta e benestante, Bobby è stimatissimo dai compagni, cui spesso offre regali o soldi per ogni necessità. è inoltre assai devoto, regolarmente presente in chiesa per la messa: impossibile, insomma, che possa mentire.
Eppure di quella meta si continua a parlare. Non solo nel giorno della partita, quando dall'ufficio telegrafico di Cardiff vengono spediti qualcosa come 35.000 messaggi, contro una media giornaliera di 800. Ma anche in seguito: l'arbitro Dallas, subito dopo la gara, ha preso il treno per Edimburgo, e solo con qualche giorno di ritardo apprende delle contestazioni neozelandesi sulla meta non concessa a Deans. Ma il direttore di gara resta convinto della propria decisione, e cioè di avere visto Deans mettere la palla a terra 15-30 centimetri prima della linea di meta. "In quel momento non poteva né passare né giocare il pallone. E quando arrivai sotto i pali del Galles fischiai, chiaro e forte". Una testimonianza conservata nel museo del rugby a Cardiff, insieme al fischietto di quell'incontro. Ma la versione dell'arbitro scozzese non convince, anche perché Dallas, la cui corsa è resa complicata dal cappotto che indossa, arriva in zona diversi secondi dopo il placcaggio fatto da Morgan a Deans. Né aiuta l'analisi degli articoli scritti dagli inviati all'incontro, unitamente alle testimonianze dei presenti. Il lavoro produce infatti solo un risultato: quell'episodio continua ad avere storie discordanti. Non c'è certezza neppure sull'autore dell'ultimo placcaggio: qualcuno sostiene che ad effettuarlo non fu Morgan, bensì Gabe. Ma se il mondo del rugby è incerto e diviso, Deans invece non ha dubbi. "Io quella meta l'avevo segnata", continua a ripetere. A credergli sono sostanzialmente tutti i neozelandesi, in primis naturalmente i compagni di squadra. In Galles, invece, la pensano in modo diverso: la storia si tramanda dai padri ai figli, e la versione si chiude sempre alla stessa maniera: "Non era meta". Per questo Deans cercò, attraverso i giornali, testimonianze soprattutto in Galles, dove molti invece giudicano esatta la decisione dell'arbitro Dallas di non concedere la meta. Ma a Bobby restavano poco più di due anni di vita. E persino sul letto di morte, non rinunciò a rivendicare quella segnatura contro il Galles, "I really scored the try".
La questione era ben lontana dall'essere risolta.
Insieme alla meta, infatti, anche quella frase di Bob non viene dimenticata: qualche anno dopo, nel 1924, gli All Blacks tornano in Galles. è la seconda tournée dei neozelandesi in Gran Bretagna. Per l'occasione viene allestito uno speciale banchetto: tra gli invitati alcuni dei giocatori protagonisti del primo tour dei Tutti Neri, insieme ai loro rivali della partita all'Arms Park di Cardiff. Tra questi c'è Morgan, l'autore dell'unica meta di quella partita, oltre che del placcaggio su Deans. Sono passati anni, ma il gallese non fatica a riconoscere uno degli avversari di quel giorno: Billy Wallace, l'ala degli All Blacks che aveva dato il via all'azione più controversa della storia.
Si trovano seduti a due tavoli: Morgan prende il cartoncino del menù, scrive poche righe, lo fa avere a Wallace. Billy, letto il messaggio, alza gli occhi verso quel leale ex avversario. I due si sorridono. Quel cartoncino è oggi conservato nel museo del rugby in Nuova Zelanda. Sopra c'è scritto: "A Billy Wallace da Teddy Morgan. Bobby Deans ha veramente segnato a Cardiff nel 1905".
Quella partita, giudicata dal giornalista neozelandese C.C. Reade come "la più bella della storia del rugby", era finita. E Bobby Deans, diciannove anni dopo, aveva finalmente riavuto la sua meta.

domenica 30 settembre 2012

Archimede

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Archimede nacque a Siracusa nel 287 a.C., figlio d’un astronomo di nome Fidia, noto per avere tentato di stabilire il rapporto di grandezza tra il sole e la luna. Plutarco nella “Vita di Marcello” scrive che egli era parente ed amico del re Ierone II sostenendone un’origine nobile dalla famiglia dei Gelonidi.
In effetti molte fonti confermano una sua frequentazione presso la reggia del re e di una vera amicizia tra i due.
I suoi studi iniziarono in patria, allora una città fiorente nel commercio ma anche nella cultura; per approfondire i suoi studi viaggiò molto in Grecia, in Asia Minore e in Egitto ove sostò ad Alessandria, sede allora della famosa biblioteca diretta da Eratostene di cui era grande amico, e col quale Archimede manteneva un fitto rapporto epistolare e d’amicizia.
Si pensa che in occasione di quella visita al grande amico, Archimede abbia inventato la coclea oggi nota come “vite di Archimede” che permette di sollevare una certa quantità di acqua da un livello più basso ad uno più alto.
Esso era costituito da un tubo avvolto elicoidalmente attorno ad un asse inclinato e munito di manovella per farlo girare, usando poi dei canali ottenne un efficiente sistema di irrigazione.
Archimede tra l’altro era anche in contatto con altri scienziati dell’epoca come Conone, Dositeo e Zeusippo coi quali confrontava le sue scoperte.
Nel 274 a.C. Ierone II salì al potere concedendo alla città un periodo di pace e prosperità a causa di un florido rapporto di amicizia con i Romani che consentirono di mantenere fuori il regno dalle sanguinose lotte Puniche.
Archimede come abbiamo detto fu amico del re, il quale lo mantenne sotto la sua protezione consentendogli di sviluppare i propri studi anche per usi militari.
Ecco il ritratto che ne fa di lui Plutarco:
«Egli poneva la sua intera dedizione e ambizione in quelle purissime speculazioni senza alcun riferimento ai bisogni volgari della vita; studi la cui superiorità su tutti gli altri è fuori di dubbio, e in cui la sola incertezza è se sia la bellezza e la grandezza dei temi esaminati, o la precisione e la forza dei metodi adottati, a meritare di più la nostra attenzione.
Non è possibile trovare in tutta la geometria questioni più difficili e intricate, o più semplici e lucide dimostrazioni.
Alcuni ascrivono questo al suo genio naturale; altri ritengono che solo un incredibile sforzo e grande pena hanno prodotto risultati così chiari ed eleganti. Per quanto grande sia il tuo sforzo, non riusciresti a trovare la dimostrazione, eppure, una volta vista, subito pensi che certo avresti potuto trovarla; tanto rapido e agevole è il suo cammino attraverso il quale egli ti porta alle conclusioni richieste dal problema…
Quando egli veniva occasionalmente trascinato con la forza dai servitori a bagnarsi e a oliare il suo corpo, continuava a tracciare figure geometriche sulla cenere e diagrammi sul suo corpo, in uno stato di completa concentrazione e nel senso più proprio, di divina ossessione per il suo amore e piacere nella scienza»
Ma cominciamo dapprima col parlare dei libri che scrisse colui che è considerato il più grande scienziato dell’antichità:
Sull’equilibrio dei piani è un doppio libro che comprende studi sulla leva e una serie di considerazioni sulle figure rettilinee e sui centri di gravità del triangolo e del trapezio.
Il secondo libro invece si concentra sul baricentro di una parabola usando il metodo di esaustione. Esso permette di calcolare o verificare il valore di una grandezza con delle approssimazioni sempre minori man mano che si procede con il metodo.
Un esempio è il calcolo dell’area di una superficie curva, utilizzando una quantità sempre maggiore di rettangoli o parallelogrammi è possibile, all’aumentare della quantità, ottenere una misura sempre più precisa dell’area.
Questo metodo è alla base del calcolo delle derivate, dei limiti e della matematica infinitesimale scoperta nel 600 da Newton.
Il concetto di baricentro come punto di applicazione di tutte le forze di un solido era già conosciuto all’epoca, ma fu Archimede a darne una teoria razionale e un’esplicita definizione di centro di gravità, trovando inoltre i centri di gravità delle principali figure geometriche: triangolo, rettangolo, cerchio e poligoni regolari.
Stabilisce quindi che ogni oggetto ha un baricentro e che tramite la sua conoscenza è possibile ottenere le migliori applicazioni della meccanica e della statica, che sotto molti aspetti è nata grazie a Archimede.
Intorno alle cose che stanno sull’acqua è diviso in due libri, la cui prima parte pare avere riferimento alla vicenda della corona del re Ierone che fece seguito alle varie scoperte nell’idrostatica secondo le indicazioni di Vitruvio.
Si racconta che il re Ierone fece commissionare ad un orafo siracusano una corona d’oro da votare agli dei.
Ma il re temendo che la quantità di oro fornitagli fosse in realtà stata usata solo in parte per far posto dell’argento, chiese allo scienziato di risolvere il dubbio. Come riuscire a capire quanto oro e argento fosse stato usato senza dover fondere nuovamente la corona?
Partendo dal principio che un corpo immerso in un liquido sposta tanta acqua quanto il peso del suo volume, prese una massa d’oro e poi una d’argento dello stesso peso della corona e le immerse in un recipiente colmo d’acqua, raccogliendo poi l’acqua versata.
Essendo il volume dell’oro e dell’argento differente a parità di peso, la quantità di acqua spostata risultava differente, sicché fu facile scoprire la frode dell’orafo. Si dice quindi che il re avuta la soluzione dal grande scienziato fu preso da grande meraviglia promettendosi d’ora in poi di non prestar fede a nessuno se non dopo aver parlato con Archimede.
Nella seconda parte del libro Archimede accresce la difficoltà dei calcoli supponendo la superficie di un liquido non piana ma sferica.
Il trattato divenne famoso tanto da indurre Galileo a scrivere il suo Discorso intorno alle cose che stanno sull’acqua dove prende le difese di Archimede contro gli attacchi di un Aristotelico del suo tempo.
Sui galleggianti è un’opera anch’essa divisa in due libri contenente il famoso principio. “Qualsiasi solido più leggero di un fluido, se collocato nel fluido, si immergerà in misura tale che il peso del solido sarà uguale al peso del fluido spostato” e inoltre “Un solido più pesante di un fluido, se collocato in esso, discenderà in fondo al fluido e se si peserà il solido nel fluido, risulterà più leggero del suo vero peso e la differenza di peso sarà uguale al peso del fluido spostato”.
Viene così introdotto il concetto di peso specifico relativo che in passato era stato ignorato. Oltre alla proprietà dei fluidi tratta anche l’equilibrio di segmenti paraboloidi immersi in un fluido mostrando che la posizione di quiete dipende dal peso specifico relativo del paraboloide e del fluido in cui galleggia: esso è alla base del criterio di costruzione degli scafi delle navi.
La scoperta della spinta idrostatica avvenne come tutti sappiamo casualmente, quando Archimede immersosi nelle acque del mare percepì la spinta come un alleggerimento del suo peso. Si dice che alla scoperta egli avesse urlato la famosa frase “eureka!” che vuol dire “ho trovato!” e che da qual momento fosse corso nel suo studio per approfondire meglio la scoperta.
Sul principio suddetto è da citare la diffusione della bilancia idrostatica che consente di misurare la densità di un corpo.
Sulla misura del cerchio è un piccolo trattato probabilmente incompleto legato a quello della sfera e del cilindro, in cui si parla dei rapporti tra cerchi e triangoli, del rapporto tra il cerchio e il suo diametro esprimendo il valore del π con una precisione migliore di quella ottenuta dai matematici egiziani e babilonesi. Egli immaginò di inscrivere e circoscrivere dei poligoni regolari di 96 lati su di un cerchio di raggio unitario, calcolando il perimetro dei due poligoni riuscì ad approssimare con una certa precisione la misura del π, ossia: “la circonferenza è uguale al triplo del diametro più una certa porzione del diametro stesso più piccola dei 10/70 e più grande dei 10/71 del diametro stesso”, quindi 3,1416.
Il procedimento usato, un po’ come il metodo di esaustione fa si che all’aumentare del numero dei lati dei poligoni lo scarto di precisione della misura aumenti.
Si dice anche che egli abbia provato una misura con un poligono con ben 384 lati!
Sulle spirali fu un trattato molto ammirato ma poco letto perché considerata un’opera assai difficile. Si commentano degli studi sulle spirali, una figura scoperta da Archimede e studiata da lui nel dettaglio.
Quadratura della parabola è il primo esempio di quadratura di una curva dopo quella del cerchio.
Egli ottenne questo risultato usando sempre il metodo di esaustione di cui scoprì anche che l’area del segmento parabolico è uguale ai 4/3 dell’area di un triangolo avente la stessa base e uguale altezza della curva.
Sui conoidi e sferoidi è un libro in cui Archimede parla dei conoidi e degli sferoidi ottenuti dalla rotazione di ellissi, parabole e iperbole.
Le loro proprietà sono simili a quelle del cono e della sfera pertanto il trattato parla proprio di queste figure, descrivendone i rapporti.
Inoltre vi è descritta la procedura per trovare l’area di un ellisse, ottenuto con un processo simile al moderno metodo di integrazione, differendo principalmente per la mancanza del concetto di limite di una funzione.
Sulla sfera e sul cilindro è scritto in due libri ove si trattano i rapporti tra i volumi del cilindro e della sfera.
La geometria antica fino a Euclide restringeva le proprie conoscenze alle proprietà delle figure piane: si conosceva come misurare la superficie di un triangolo, di un parallelogrammo di un trapezio, ma si ignorava la misura della circonferenza di un cerchio. Stessa situazione per i solidi, si sapeva misurare il volume di un prisma, di una piramide, ma si ignorava il rapporto per determinare il volume di una sfera, di un cilindro e di un cono.
Archimede con la quadratura del cerchio e dei volumi determinò i rapporti. Egli infatti per primo risolse il problema della misurazione delle geometrie curve.
Così ottenne: la superficie di un cilindro, di un cono, della sfera, il volume di un cilindro, di un cono e di una sfera. Inoltre trovò il rapporto tra una sfera e un cilindro inscritto.
L’arenario ovvero il contatore dei granelli di sabbia è un’opera numerica che suppone l’esistenza di un numero sufficientemente grande per contare i granelli di sabbia dell’Universo.
L’opera è dedicata a Gelone figlio del re Ierone II, ecco l’incipit: “Ci sono alcuni, o re Gelone, che ritengono i granelli di sabbia essere una moltitudine infinita…”. Egli voleva determinare con questo conteggio il volume dell’intero universo, ma per fare questo aveva bisogno di prendere a riferimento un modello di universo.
Difatti la teoria di Aristotele e Ipparco sosteneva la geocentricità dell’universo, mentre quella di Aristarco di Samo era eliocentrica.
In questa seconda ipotesi il moto della Terra nel corso della propria orbita avrebbe dovuto produrre un effetto di parallasse delle stelle che avrebbe dimostrato la veridicità del modello.
Ma viste le distanze in gioco la misura risulta essere assai piccola e non ancora misurabile, così Aristarco difendendo il suo modello sosteneva delle distanze tra i corpi molto più grandi di quelle geocentriche.
Archimede quindi decise di affrontare il caso più difficile calcolando il volume dell’universo di Aristarco e sostenendo con forza la teoria eliocentrica ben 1700 anni prima di Copernico!
Bisogna sapere che all’epoca la numerazione greca, seppur aveva già fatto notevoli passi avanti, aveva delle limitazioni nel conteggio di numeri grossi, quelli che servivano in campo astronomico.
Essi dividevano i numeri in periodi di 10, ignorando la rappresentazione semplice che conosciamo noi, usando 36 caratteri differenti tratti dal loro alfabeto per rendere l’aritmetica regolare e possibile.
Con i 36 caratteri esprimevano tutti i numeri al di sotto di 10.000.
Poi per esprimere numeri di decine di migliaia apponevano la lettera M sotto il carattere, rendendo il numero 10 mila volte maggiore.
Il sistema in effetti era complesso e penoso e Archimede intuì un sistema per i numeri grandi.
Così da tale metodo per ottenere numeri enormi a cui doveva far fronte, partì da 10.000 che chiamò “numero di primo ordine” e moltiplicandolo per se stesso ottenne il numero di 100 milioni “numero di secondo ordine”.
Prendendo questo numero come unità giunse ai numeri di terzo ordine col quale riuscì a esprimere qualsiasi quantità.
Egli poi divise i numeri in periodi o ordini di otto cifre che denominò ottadi, un sistema che gli semplificò i calcoli.
Stabilite queste quantità Archimede calcolò il numero di grani di sabbia necessari per riempire una sfera del diametro di un dito, poi di 100, di uno stadio, di 10.000 stadi e così via, giungendo al risultato finale che l’Universo (ristretto allora al sistema solare) è definibile con un numero finito.
A tal proposito scriveva: “Queste cose ritengo che sembreranno incredibili ai molti imperiti nelle matematiche, ma saranno credibili da coloro che vi sono versati e che abbiano meditato sulle distanze e sulle grandezze della Terra, del Sole, della Luna e di tutto il cosmo”.
Il valore dell’opera dunque risiede non solo nel tentativo di usare una numerazione più semplice per i numeri grandi le cui regole postulate precorrono persino quelle del calcolo logaritmico, ma soprattutto nell’intuizione di una ricerca tanto ardua che persino oggi mantiene una difficoltà insuperata.
Nel testo inoltre si parla della misura del diametro apparente del sole nel quale afferma altresì: «Mi sono sforzato a prendere con istrumenti l’angolo che comprende il Sole e che ha al suo vertice l’occhio dell’osservatore; ma questo angolo non è facile a prendere, poiché con l’occhio, con le mani e con gli istrumenti in uso per questo, non è possibile misurarlo con esattezza; essendo inutile parlare dell’imperfezione di tali istrumenti, ciò fu detto diverse volte; ma del resto mi basta per dimostrare la mia proposizione, di prendere un angolo che non sia maggiore di quello che comprende il Sole e che ha il suo vertice nell’occhio dell’osservatore; e poi altro angolo che non sia minore di quello che contiene il Sole e che abbia pure il vertice all’occhio dell’osservatore».
Le parole di Archimede sono importanti in quanto anticipano di secoli il concetto di rigore scientifico e di precisione della misura.
Il libro dei lemmi è un altro libro che rientra nel campo della matematica e della geometria. Il testo non è pervenuto originale ma attraverso una traduzione araba che ne ha alterato sicuramente la genuinità.
Il lemma è una proposizione preparatoria destinata a provarne un’altra, che abbia relazione diretta col soggetto trattato.
Tra le proposizioni vi è quello famoso sulla proprietà delle corde oltre ad una serie di teoremi e risoluzioni matematico-geometriche.
Il metodo è un’opera per certi versi curiosa e fu scoperta solamente nel 1906.
In essa Archimede descrive il suo metodo d’indagine preliminare che lo conduceva alle principali scoperte matematiche.
Vi sono dei passaggi scritti sotto forma di lettera per Eratostene. Esso avveniva considerando superfici e volumi come una sommatoria infinita di elementi sottili con un loro peso e un baricentro.
Pertanto riuscì a intuire e poi a dimostrare diverse relazioni esistenti tra figure geometriche immaginando di pesare i singoli elementi con una bilancia. Un esempio è la relazione tra l’area di un segmento parabolico e quella di un triangolo inscritto, pari a 4/3.
Ma nel libro si parla anche di come giungesse intuitivamente alla scoperta di relazioni tra misure geometriche e matematiche.
Egli ricorreva alla misurazione diretta di figure geometriche per poi voler dimostrare matematicamente la sua veridicità.
Qualsiasi matematico in genere si vergognerebbe a divulgare una sua scoperta nata da misure dirette, tuttavia lo stesso metodo lo adottò anche Newton il quale ritardò l’uscita di molte scoperte matematiche onde trovare la forma rigorosa che nascondesse in metodo archimedeo.
Dunque per Archimede qualunque mezzo è utile per giungere al suo scopo, purché poi esso venga davvero dimostrato.
Si sa che Archimede scrisse altre opere andate perdute, un trattato sui poliedri semiregolari, sulla costruzione delle sfere, sulle bilance e sulle leve, una sugli specchi e uno su di un sistema numerico.
La famosa frase “Datemi un punto d’appoggio e vi solleverò il mondo” attribuita allo scienziato siracusano introduce l’argomento della leva.
Come abbiamo detto egli descrisse le sue scoperte all’interno di un’opera perduta, ma Sull’equilibrio dei piani egli espone tutti i principi noti di una leva di primo e secondo genere.
Quella di primo genere ha il fulcro disposto tra la resistenza e la potenza, mentre in quella di secondo genere la resistenza è posta tra il fulcro e la potenza. Su tali principi fondò la costruzione di celebri macchine ad uso civile e da guerra che ebbero una grande utilità pratica.
Ma su queste macchine Archimede non fa menzione poiché egli seppur sospinto dalle richieste del re a costruirne diverse le considerava non degne della nobiltà della scienza; eppure fu maggiormente con esse che egli fece crescere la sua fama nel mondo antico. Difatti costruì carrucole, leve e piani inclinati che ebbero applicazione pratica nel varo di grandi imbarcazioni nei cantieri navali siracusani.
Questi mezzi riuscivano a sollevare grandi pesi col minimo sforzo traendone un vantaggio immenso, infatti l’applicazione di più pulegge per sollevare grandi pesi effettua una demoltiplicazione dello sforzo applicato.
Erone di Alessandria descrive infatti in una delle sue opere una macchina ingegnosa inventata da Archimede chiamata Elice.
Il testo di Erone è mancante, ma Pappo ne lascia una descrizione di questo meccanismo composto di ruote dentate mosse da una vite senza fine; gli ingranaggi accoppiati alla vite senza fine comunicano il movimento demoltiplicandone lo sforzo da applicare tramite la rotazione di una manovella.
Si dice a tal proposito che Archimede fece varare una grossa nave e dopo averla caricata, con l’uso esclusivo di un sistema di leve e carrucole e della forza delle sue braccia, l’abbia tirata a terra con lo stupore dei presenti e del re.
Si pensa poi che questo episodio abbia indotto il re a costruire la leggendaria nave descritta da Moschione, progettata da Archimede e diretta nella costruzione da Archia di Corinto, essa fu l’imbarcazione più imponente dell’antichità: «Del monte Etna provvide il materiale dei legnami, il quale sarebbe stato bastevole per costruire sessanta galee.
Oltracciò fe’ grande apparecchio di chiodi, ferri, pali ed altri strumenti ad ogni uso: la materia, parte dall’Italia e parte dalla Sicilia procurò. […] Nello spazio di sei mesi ne fu compiuta la metà, e questa di tratto in tratto si andava coprendo con lamine di piombo, essendo impiegati all’opera trecento artefici, oltre a tanti altri operai.
Questa parte oramai compiuta ordinò Gerone che si varasse in mare e quivi si continuasse a fabbricare il restante.
Ma essendo cosa malagevole il tirarvela, il solo Archimede con certi suoi ingegni e pochi strumenti varolla: avendo allestita l’elica per mezzo della quale condusse nelle acque così smisurato naviglio.
E fu Archimede il primo che inventò tal macchina.
[…] vi aveva venti ordini di remi e tre entrate, di cui la più bassa metteva alla zavorra, ed in essa scendevasi per molte scale; la seconda presentatasi a coloro che andar volevano negli appartamenti più famigliari; e l’ultima era destinata pei soldati in arme.
Ad un fianco all’altro del ponte di mezzo erano trenta stanze, e ciascuna di esse fornita di quattro letti.
Nel luogo destinato ai marinai n’erano quindici con tre talami per gli ammogliati e tre triclini per ognuna: la cucina per questi era in verso la poppa. Il solaio di detto piano era poi tutto lavorato di pietre di vari colori intarsiate a bel disegno rappresentante la guerra di Troia.
Ed in ogni cosa per l’artificio era meravigliosa e per la struttura e per la copertura e per le porte e per le finestre. […] tre erano gli alberi del vascello e ciascuno di essi avea due antenne da tirar sassi e far vela, dalle quali ed uncini e palle di piombo scagliavansi contro nemici.
Circondava il navile una palizzata di ferro per tener lontani gli assalitori; e vi avea tutto all’intorno certe mani di ferro, le quali gittate per mezzo di ordigni su le navi nemiche si attaccavano a queste per poterle viemmaggiormente scomporre ed offendere». La nave fu chiamata la “Siracusia”, poi cambiata in “l’Alessandria” perché andò in regalo al re Tolomeo in Egitto.
Sempre nell’ambito dei suoi studi Galeno gli attribuisce l’invenzione del Divulsile uno strumento per raddrizzare le ossa slogate, Cicerone invece parla di una macchina circolare con la quale rappresentava i movimenti del Sole, dei pianeti e della Luna, nonché delle sue fasi e delle eclissi; esso fu posto ad ornamento del quartiere di Acradina ad onore dell’illustre cittadino.
Infine si parla di un planetario in cui aveva rappresentato la posizione delle costellazioni del cielo. Sembra che lo stesso Archimede ritenesse i suoi planetari come la migliore delle sue realizzazioni.
Ecco cosa dice Cicerone: «Colui che col suo genio ha concepito tutti i movimenti dei corpi celesti; colui il quale ha dimostrato che l’anima sua rassomigliava a quella dell’Essere che li ha creato il cielo; Archimede insomma, rappresentando in una sfera il corso della luna, del sole e dei cinque pianeti ha fatto quello che fece il dio di Platone; il quale nel suo Timeo costruisce l’universo, e con una sola rotazione regola il moto degli astri, lento in alcuni celere in altri.
Se la sola potenza di un dio può eseguire questi movimenti nel mondo, Archimede li ha potuto imitare in una sfera perché dotato di genio divino»
Sembra inoltre che egli abbia costruito una meridiana all’interno del tempio di Atena (l’odierna cattedrale di Siracusa) dove stabilì la misura dell’equinozio, altri addirittura gli affibbiano la costruzione di un telescopio a riflessione.
Tra le altre realizzazioni di Archimede si ricorda l’organo idraulico, una macchina in grado di comprimere l’aria e farla uscire a pressione, e lo Stomachion una sorta di gioco geometrico in cui si utilizzano delle figure geometriche piane con la quale si possono rappresentare le sagome di esseri umani, animali ed oggetti.
Ma il destino del regno di Siracusa mutò, dapprima per la prematura morte di Gelone figlio del re Ierone ed erede al trono, poi per la morte dello stesso monarca nel 215 a.C. al quale succede il nipote Ieronimo.
La giovine età e la differente politica adottata dal nuovo reggente porta alla rottura dei trattati di pace con i Romani che dopo poco tempo nel 213 a.C. attaccano Siracusa guidati dal console Marcello.
Ma la città essendo ben fortificata da possenti mura e difesa dall’ingegno di Archimede dette vita dura agli assalti Romani.
Archimede aveva già sperimentato diverse macchine da guerra come la Balista che serviva a lanciare dardi di gran peso; simile a una balestra di grosse dimensioni possedeva un verricello col quale mettere in tensione la macchina e scagliare così delle lance appuntite di un metro circa di lunghezza.
La catapulta che lanciava grosse pietre e altro materiale con la tensione di un braccio in trazione, anche se tuttavia c’è da dire che le catapulte e le baliste esistevano già da tempo e usate da diversi popoli antichi, Archimede forse le aveva al più perfezionate e usate adattandole alle fortificazioni siracusane.
Lo scorpione infatti era già in uso ai Greci e lanciava piccole saette, portato da un singolo soldato era una specie di balestra.
Il corvo poi era una macchina composta da una trave mobile appesa ad un castello con la quale tirava a sé le macchine nemiche.
Polibio afferma che la macchina girava in tutti i sensi avvalorando la tesi che Archimede l’avesse migliorata rispetto gli usi del passato. Le mani di ferro venivano lanciate contro le navi nemiche per afferrare e tirare con argani dall’interno delle mura le varie imbarcazioni che venivano così distrutte.
Si accenna poi ad altre macchine, anche se le conoscenze a tal proposito sono troppo vaghe e incerte tanto da lasciare il solo beneficio dell’immaginazione.
Una cosa certa invece è che diversi macchinari da guerra furono posizionati da Archimede lungo il perimetro delle mura della città, le quali riuscirono brillantemente a contrastare e a procurare gravi danni alle legioni Romane sia per mare che per terra.
Ecco un passo commentato da Serafino Privitera: «E pure cotesti micidiali strumenti, che arrecavano tanta ruina ai nemici, erano un nulla a fronte di quest’altro, che l’eccelso uomo aveva inventato per atterrirli e distruggerli.
Aveva situate sui merli grosse e lunghe antenne in un asse fermo poste in bilico, ed al muoversi agevolissime, alla testa sporgente era un ordigno poderoso di ferro a guisa di mano che con ammirabile meccanismo e forza di catene spalmatasi e stringevasi tenacemente.
Non appena di sotto appressatasi la nemica nave, all’improvviso e con orrendo fracasso vi piombava di sopra arrecandovi gran danno, poi abbrancando quanto vi aveva di assi e di gomene in su la prora, in virtù del maggior peso del punto opposto sollevandosi il gran vette tirava in alto fuori l’onde la galea capovolta, e mentre a rifascio uomini, e remi, ed ancore, ed armi, e quanto vi avea andava a precipizio in mare, essa dimenatasi in aria a sbattere e frangersi nell’ispide rocce, finché ad un tratto lasciata di peso da quelle ferree tanaglie, cadeva giù tonfo e a ruina nelle onde». Inoltre in quell’occasione Archimede mostrò a tutti la forza distruttiva dei famosi specchi ustori: «Se non che a pieno giorno con insolita maraviglia vedeano di mezzo alla flotta vibrarsi come una colonna di vivissimo fuoco, che in un baleno or questo, or quel vascello metteva tutto in fiamme.
Era Archimede, che addensando i raggi del sole nei suoi specchi ustori ne facea strumento di distruzione e di morte contro i nemici della sua patria. […] Stupefatto Marcello a mirar tante e così nuove opere dal sommo matematico inventate, non potea trattenersi dal dire che quello non era guerreggiar con uomini, ma con Briarei dalle cento braccia.
E i soldati ne avean concepito si grande terrore, che al solo nome d’Archimede, al solo vedere spuntar dalle mura una gomena, un’antenna, un segno qualunque, allibiti fuggivano. Laonde disperando di potere oppugnare di viva forza la città, il Console pensò di cangiar l’assedio in blocco per ridurla a fame».
In effetti la vicenda degli specchi ustori ha per molti aspetti dei tratti più che altro leggendari, in quanto ciò che necessitava allo scienziato per l’uso distruttivo degli specchi era una parabola con un fuoco lungo tanto quanto era la distanza delle navi da incendiare, nonché una grande superficie riflettente.
E’ in effetti indubbio che le conoscenze matematico-geometriche permettessero al grande scienziato di costruire degli specchi concavi, ma il problema pratico era quello della notevole superficie riflettente necessaria a concentrare in un sol punto tanta energia. Gli specchi avrebbero dovuto essere molteplici, oppure uno solo di grandi dimensioni, e su questo punto da secoli ci si divide sulla possibilità o meno con i mezzi dell’epoca di realizzare una simile macchina.
Come ben sappiamo la fine dell’assedio alla città di risolse con l’invasione romana, non causata da un cedimento difensivo, ma bensì dal tradimento di alcuni cittadini che favorirono l’ingresso dei soldati in piena notte, e quindi il disastroso sacco che ne conseguì.
La città messa a ferro e fuoco dai soldati ebbe così il più grave dei suoi lutti, ossia quello della morte del grande scienziato; un soldato entrato all’interno dello studio di Archimede esortò lo stesso a voltarsi, ma egli assorto in chissà quale riflessione scientifica fu ucciso senza remora.
Il console Marcello alla notizia ne fu rattristato dato che aveva dato ordine di non ucciderlo.
Fu poi egli stesso e proporre solenni funerali e a far costruire una lapide all’esterno delle mura cittadine (si dice in zona Acradina) con la rappresentazione di una sfera inscritta in un cilindro, proprio come egli aveva desiderato.
Era l’anno 212 a.C. dove nel buio dei giorni tristi dell’invasione romana a Siracusa, fu come persa la memoria del grande cittadino, poi ricordata negli scritti di Cicerone il quale venendo in città riscoprì la tomba dello scienziato in stato di abbandono.