lunedì 29 ottobre 2012

Scorie nucleari a spasso..

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Il 13% delle scorie radioattive francesi sarebbero attualmente stoccate nel complesso atomico russo di Tomsk-7, in Siberia e che ogni anno 108 tonnellate di uranio impoverito provenienti dalle centrali atomiche francesi verrebbero spedite in Russia e scaricate a cielo aperto.
I container vengono imbarcati a Le Havre, su navi che attraversano la Manica ed il Baltico, fino a San Pietroburgo, poi sono caricati a bordo di un treno che li porta fino al complesso atomico di Tomsk-7, in Siberia.
In questo impianto l'uranio viene sottoposto ad un processo di arricchimento, appena il 10% dell'uranio trattato viene così recuperato, e rispedito in Francia dove viene reintrodotto nel processo di produzione di energia.
Il resto, il 90% del materiale che arriva in Siberia, non è riutilizzabile, diventa di proprietà dell'impresa nucleare russa Tenex e rimane stoccato a cielo aperto.
Gli ecologisti russi e francesi di Greenpeace accusano il governo francese di abbandonare le proprie scorie radioattive in Russia, e di non essere capaci di gestire il plutonio, una materia molto pericolosa
Un video mostra in maniera inequivocabile e dettagliata contenitori con combustibile nucleare usato stoccati accanto ad una ferrovia in Siberia senza nessuna precauzione. Direttamente sul terreno.
Tutti questi eventi minano e screditano quel nucleare che i francesi stessi hanno sempre definito "sicuro".
Bisogna che la Francia nucleare si assuma le conseguenze delle sue attività e ne renda finalmente conto davanti all'opinione pubblica, i cittadini francesi devono in questa occasione prendere coscienza dell'accumulazione drammatica di diverse categorie di rifiuti e residui radioattivi prodotti dall'industria nucleare e dell'assenza di soluzioni per queste scorie.
Il rimpatrio in Francia delle scorie radioattive spedite in Russia obbligherà le autorità francesi a tentare di trovare un sito di stoccaggio, pur sapendo che è più difficile trovare un sito del genere in Francia che in fondo alla Siberia.
Questo permetterà di ricordare che, malgrado le manovre indegne, lo Stato francese non riesce, da molti mesi, ad imporre la realizzazione di un sito di interramento delle scorie radioattive: i tentativi fatti nell'Aube all'inizio del 2009 sono stati respinti dalle popolazioni locali e dalle associazioni antinucleari.
Quanto accade in Francia, dove oramai l'intero sistema nucleare sta svelando i suoi scheletri nell'armadio, è l'ennesima dimostrazione del fatto che non esiste una soluzione sensata al problema delle scorie.
Problema che nella nostra Italia viene addirittura affrontato con estrema superficialità, nel programma berlusconiano di rilancio del nucleare.
Infatti da noi si preferisce annunciare, con la pomposità di uno spot elettorale, nuove centrali, ma mai si racconta come si prevede di smaltire i rifiuti radioattivi.
Eppure, in preda ad una follia collettiva da parte delle forze di governo italiane, mentre il resto del mondo ragiona sul come abbandonare la produzione per via atomica di energia elettrica, da noi da qualche anno si è tornati a parlare dell'energia nucleare addirittura come di "un'energia verde".
Si racconta che la filiera nucleare è chiusa, che i materiali radioattivi sono riutilizzabili, che si ridurrebbe la dipendenza dal petrolio e si attenuerebbero le emissioni di anidride carbonica.
Peccato che la realtà sia quasi all'opposto.

venerdì 26 ottobre 2012

Armi non letali.

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I biologi si fanno un pisolino mentre il loro lavoro viene militarizzato.
Questa più o meno la traduzione del titolo di un forte articolo uscito su Nature.
L'autore, Malcolm Dando, professore presso l'università di Bradford, parte dall'episodio del teatro Dubrovka dell'ottobre 2002, quando le forze dell'ordine intervennero per salvare gli ostaggi chiusi nel teatro da un gruppo armato ceceno: per liberare 750 ostaggi gassarono il teatro con un agente chimico e ne uccisero 124.
Non si sa esattamente cosa ci fosse nell'agente chimico, ma pare che il preparato fosse a base di fentanyl, un oppioide usato anche come antidolorifico e droga ricreativa.
L'episodio ha mostrato come sempre nuove armi biochimiche siano in mano ai governi e come questi non si pongano eccessivi problemi nell'utilizzarle anche se non soprattutto all'interno dei propri confini.

Negli ultimi decenni, infatti, i paesi del G20 hanno affrontato quasi esclusivamente o guerre asimmetriche o rivolte interne e, in entrambi i casi, gli scenari di combattimento sono prevalentemente all'interno delle città.
Conseguentemente, il settore della ricerca volto a sviluppare armi per questo tipo di conflitti è in rapida espansione, mentre la preoccupazione di tutti é rivolta alle armi nucleari.
In particolar modo l'articolo di Nature si occupa della ricerca riguardante gli agenti biochimici detti non-letali, anche se spesso queste sostanze si rivelano alla fine letali come mostra il caso del Dubrovka.

Il salto qualitativo che l'autore descrive nello sviluppo di questo tipo di armi è il passaggio da un modello in cui le sostanze venivano sviluppate come medicine e poi se ne trovava un uso militare, a un modello in cui si salta il primo passaggio per sviluppare direttamente sostanze il cui unico uso è militare-poliziesco.

Un esempio di conversione medico-militare è il BZ, che negli anni '50 viene sintetizzato e studiato come farmaco volto a curare i dolori gastrointestinali ma che assunto in dosi forti causa delirio. Nel 1961 l'esercito americano lo sviluppa come arma.
Dal 1966 al 1990 l'esercito americano ha a disposizione “munizioni in grado di somministrare BZ”.
Il BZ causa allucinazioni e, per alcuni soggetti, blocca il sistema nervoso a livello tale che non si riesce a coordinare i movimenti o a formare pensieri coerenti.
Non è chiaro se sia mai stato usato in contesti non-sperimentali.

Adesso la linea guida é direttamente quella di identificare “snodi biochimici cruciali” del sistema nervoso umano e poi sviluppare sostanze in grado di bloccarli. Una review degli usi di varie sostanze psicoattive come armi non letali é The Advantages and Limitations of Calmatives for Use as a Non-Lethal Technique, che si può scaricare via Google Scholar.
Ricco d’informazioni al riguardo anche il sito delle conferenze europee sulle armi non letali (www.non-lethal-weapons.com/) con una gustosa introduzione che spiega come la Nato e l'European Defence usino il nome meno minaccioso di Non-lethal capabilities (grosso modo capacità non letali) per descrivere quelle che fino a ieri loro stessi chiamavano armi.
Si parla molto di taser ma anche ad esempio di come somministrare per via respiratoria sostanze che blocchino i centri nervosi “per controllare sommosse e manifestazioni” (Relazione V23 del terzo congresso, l'abstract è scaricabile dal sito).

Si osserva come al proliferare di queste armi corrisponda il grado zero del dibattito tra gli scienziati del settore e un regolamento deontologico - la Chemical Weapons Convention (CWC) del 1997 - che è solo una dichiarazione di intenti e non prevede meccanismi di controllo o sanzioni.
A chi dice che le armi non letali salvano vite, si fa notare come in realtà tali armi siano state usate soprattutto in combinazione con armi letali, come il gas CS in Vietnam, che veniva usato per far uscire dai rifugi i vietcong sui quali poi usare banali armi da fuoco.
E' interessante che l'esempio sia proprio il CS, un gas così tossico che è stato bandito proprio dalla CWC relativamente agli usi di guerra, ma che è tuttora in dotazione alla polizia italiana - come sanno tutti quelli che lo hanno respirato abbondantemente a Genova il 20 e 21 luglio 2001.

La conclusione è che se da un lato si deve modificare la CWC, rendendola uno strumento serio e soprattutto proibendo anche l'uso domestico e non solo quello di guerra per le armi chimiche, dall'altro è fondamentale che i biologi smettano di “sedersi sulle mani”, comincino a rendersi conto degli interessi per i quali lavorano e ad agire di conseguenza.

Le conseguenze di un livello di attenzione basso su questi temi si sono viste al G20 di Pittsburgh, dove sono state utilizzate armi sonore per disperdere i manifestanti senza che questi fossero minimamente preparati all'evenienza e senza causare particolari sussulti nell'opinione pubblica.
Nate Harper, il capo della polizia di Pittsburgh ha dichiarato al New York Times che questo era il primo test pubblico di armi soniche sul territorio americano, e che le altre polizie presto copieranno la polizia di Pittsburgh, dato che le armi soniche “sono state molto utili al loro scopo”

giovedì 25 ottobre 2012

DIO è onnipotente ?

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Essendo dio onnipotente, può fare ogni cosa.
Allora può dio creare qualcosa che non può spostare?
Sia che si risponda sì alla domanda, sia che si risponda no,
si dimostrerebbe che dio non è onnipotente,
o perché non è in grado di creare un simile oggetto,
o perché non è in grado di spostarlo.
Questo vuole mostrare che l'onnipotenza attribuita a dio non è vera.

domenica 21 ottobre 2012

La democrazia non è per il bene di poche persone

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Noi abbiamo una forma di governo che non guarda con invidia i vicini, e non solo non imitiamo altri, ma anzi siamo noi stessi di esempio a qualcuno.
Quanto al nome, essa è chiamata democrazia, poiché è amministrata non già per il bene di poche persone, bensì di una cerchia più vasta: di fronte alle leggi, però, tutti, nelle controversie, godono di uguale trattamento; e secondo la considerazione di cui uno gode, poiché in qualche campo si distingue, quanto per il suo merito, viene preferito nelle cariche pubbliche; né, d’altra parte, la povertà, se uno è in grado di fare qualche cosa di utile alla città, gli è di impedimento per l’oscura sua posizione sociale.
Come in piena libertà viviamo nella vita pubblica, così in quel vicendevole sorvegliarsi che si verifica nelle azioni di ogni giorno non ci sentiamo urtati se uno si comporta a suo gradimento, né gli infliggiamo con il nostro corruccio una molestia che, se non è un castigo vero e proprio, è pur sempre qualche cosa di poco gradito.
Noi che serenamente trattiamo i nostri affari privati, quando si tratta degli interessi pubblici abbiamo un’incredibile paura di scendere nell’illegalità: siamo obbedienti a quanti si succedono al governo, ossequienti alle leggi, e tra esse in modo speciale a quelle che sono a tutela di chi subisce ingiustizia e a quelle che, pur non trovandosi scritte in alcuna tavola, portano per universale consenso il disonore a chi non le rispetta.
Inoltre, a sollievo delle fatiche, abbiamo procurato allo spirito nostro moltissimi svaghi, celebrando secondo il patrio costume giochi e feste che si susseguono per tutto l’anno, e abitando case fornite di ogni conforto, il cui godimento quotidiano scaccia da noi la tristezza.
Affluiscono poi nella nostra città, per la sua importanza, beni d’ogni specie da tutta la terra, e così capita a noi di poter godere non solo tutti i frutti e i prodotti di questo paese, ma anche quelli degli altri, con uguale diletto e abbondanza come se fossero nostri. Anche nei preparativi di guerra ci segnaliamo agli avversari. La nostra città, ad esempio, è sempre aperta a tutti e non c’è pericolo che, allontanando i forestieri, noi impediamo ad alcuno di conoscere o di vedere cose da cui, se non fossero tenute nascoste e un nemico le vedesse, potrebbe trarre vantaggio; perché fidiamo non tanto nei preparativi e negli stratagemmi, quanto nel nostro innato valore che si rivela nell’azione.
Diverso è pure il sistema di educazione: mentre gli avversari, subito fin da giovani, con faticoso esercizio vengono educati all’eroismo, noi, invece, pur vivendo con abbandono la vita, con pari forza affrontiamo pericoli uguali. E la prova è questa: gli spartani fanno irruzione nel nostro paese, ma non da soli, bensì con tutti gli alleati; noi invece, invadendo il territorio dei vicini, il più delle volte non facciamo fatica a superare in campo aperto e in paese altrui uomini che difendono i propri focolari. Noi amiamo il bello, ma con misura; amiamo la cultura dello spirito, ma senza mollezza; usiamo la ricchezza più per l’opportunità che offre all’azione che per sciocco vanto di parola, e non il riconoscere la povertà è vergognoso tra noi, ma più vergognoso non adoperarsi per fuggirla.
Le medesime persone da noi si curano nello stesso tempo e dei loro interessi privati e delle questioni pubbliche: gli altri poi che si dedicano ad attività particolari sono perfetti conoscitori dei problemi politici; poiché il cittadino che di essi assolutamente non si curi siamo i soli a considerarlo non già uomo pacifico, ma addirittura un inutile.
Noi stessi o prendiamo decisioni o esaminiamo con cura gli eventi: convinti che non sono le discussioni che danneggiano le azioni, ma il non attingere le necessarie cognizioni per mezzo della discussione prima di venire all’esecuzione di ciò che si deve fare. Abbiamo infatti anche questa nostra dote particolare, di sapere, cioè, osare quant’altri mai e nello stesso tempo fare i dovuti calcoli su ciò che intendiamo intraprendere; agli altri, invece, l’ignoranza provoca baldanza, la riflessione apporta esitazione. Ma fortissimi d’animo, a buon diritto, vanno considerati coloro che, conoscendo chiaramente le difficoltà della situazione e apprezzando le delizie della vita, tuttavia, proprio per questo, non si ritirano di fronte ai pericoli. Per una tale città, dunque, costoro nobilmente morirono, combattendo perché non volevano che fosse loro strappata, ed è naturale che per essa ognuno di quelli che sopravvivono ami affrontare ogni rischio.
Per questo, o genitori dei caduti quanti qui siete, non vi compiango, ma cercherò piuttosto di confortarvi. Sapete, infatti, di essere cresciuti fra le più varie vicende: felice solo chi ebbe in sorte la più splendida delle morti, come ora costoro, e il più nobile dei dolori, come voi. Beati coloro che videro la gioia della vita coincidere con una morte felice. E se devo fare un accenno anche alla virtù delle donne, per quante ora si troveranno in vedovanza, comprenderò tutto in questa breve esortazione. Gran vanto per voi dimostravi all’altezza della vostra femminea natura; grande è la reputazione di quella donna di cui, per lode o biasimo, si parli il meno possibile fra gli uomini.
Ho terminato; nel mio discorso, secondo la tradizione patria, ho detto quanto ritenevo utile; di fatto coloro che qui sono sepolti hanno già avuto in parte gli onori dovuti. Per il resto, i loro figli da oggi saranno mantenuti a spese dello stato fino alla virilità: è questa l’utile corona che per siffatti cimenti la città propone e offre a coloro che qui giacciono e a quelli che restano. Là dove ci propongono i massimi premi per la virtù, ivi anche fioriscono i cittadini migliori.
Ora, dopo aver dato il vostro tributo di pianto ai cari che avete perduto, ritornatevene alle vostre case.

PERICLE 430 A.C.

La materia oscura

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In una notte stellata fuori città, al riparo dall'inquinamento luminoso, si possono ammirare i miliardi di stelle che formano la nostra Via Lattea e, con un po' di fortuna, persino la vicina galassia di Andromeda.
Ma le stelle e tutto quello che si osserva alzando lo sguardo al cielo é in realtà solo un quinto della materia totale: secondo gli astrofisici, i restanti quattro quinti sono composti di dark matter, materia oscura che non emette luce.
Un'entità finora mai osservata. I dati astronomici raccolti negli ultimi mesi e discussi al congresso Planck2009 a Padova potrebbero finalmente aprire le porte su questo mondo parallelo, che se confermato rivoluzionerà la nostra conoscenza dell'universo.

Correva l'anno 1975 quando Vera Rubin, analizzando le curve di rotazione delle galassie, trasalì dalla sorpresa: le stelle alla periferia delle galassie ruotavano più in fretta di quanto la legge di gravità prevedesse.
Per spiegare l'anomalia, Vera propose che la materia che emette luce fosse in realtà solo un quinto della materia totale presente nell'universo: il resto è sotto forma di materia oscura.
Da allora il paradigma della materia oscura si è dimostrato estremamente efficace nello spiegare la formazione di tutte le grandi strutture presenti nell'universo, dalla Via Lattea fino ai colossali ammassi di migliaia galassie distanti miliardi di anni luce.

La maggior parte della materia non si troverebbe dunque sotto forma di pianeti, galassie o plasma interstellare, in quanto tutti questi oggetti emettono fotoni, sotto forma di onde radio, luce o raggi gamma, e dunque si possono vedere.
La materia oscura, al contrario, interagisce solo tramite la forza di gravità che la sua massa produce.
Da almeno vent'anni i fisici delle particelle hanno sguinzagliato la loro fantasia per spiegare l'origine e le proprietà della materia oscura.
Le soluzioni non mancano e sono molto suggestive: il leit motiv è l'esistenza di nuove particelle, più pesanti di quelle finora osservate e dunque difficili da produrre in laboratorio.
La cosa forse più interessante è che l'esistenza della materia oscura è predetta in diverse forme da tutte le teorie che cercano di spiegare l'origine del bosone di Higgs e la fisica delle alte energie e rappresenta un punto di contatto tra l'astrofisica e la fisica delle particelle. Vediamo di cosa si tratta.

Alcuni scienziati hanno proposto l'esistenza di una quinta dimensione spaziale, arrotolata su un cerchio di piccole dimensioni.
Ognuna delle particelle attualmente osservate sarebbe la più leggera di una torre infinita di particelle sempre più pesanti, chiamati modi di Kaluza-Klein, e in particolare il fratello più pesante del fotone costituirebbe la materia oscura. Un'altra teoria, chiamata “technicolor”, prevede l'esistenza di una nuova forza, simile alla forza nucleare (detta “colore”) che incolla tra di loro i quark all'interno dei protoni.
I nuovi “techni-protoni,” molto più pesanti dei loro cugini atomici, fornirebbero la materia mancante dell'universo.
Infine, la teoria al momento più accreditata (e motivata dalla teoria delle stringhe) è la supersimmetria, che prevede l'esistenza di una nuova dimensione “quantistica” e discreta dello spazio tempo ed associa ad ogni particella esistente una nuova particella detta “superpartner,” con la stessa carica ma una massa più pesante e diverse proprietà statistiche.
Ad esempio, il fotone avrebbe come partner il fotino, una particella molto pesante che rappresenta uno dei candidati per la materia oscura.

In questi tre scenari, la materia oscura peserebbe come il bosone di Higgs o poco più e con un po' di fortuna potrebbe essere prodotta e studiata al Large Hadron Collider, il gigantesco acceleratore di particelle di Ginevra.
Potremmo dunque essere ad un passo dall'unificazione di due discipline finora molto diverse come l'astrofisica (distanze astronomiche) e la fisica della particelle (distanze microscopiche).
Ma la grossa sorpresa è arrivata negli ultimi mesi da un fronte inaspettato: i raggi cosmici, che potrebbero fornire il primo segnale di comunicazione con il settore oscuro.

Nuove osservazioni di raggi cosmici effettuate dal satellite FERMI, hanno evidenziato un numero di positroni ed elettroni di altissima energia nettamente superiore a quello previsto dagli attuali modelli astrofisici.
Questi dati, uniti alle osservazioni dell'esperimento italiano PAMELA sul flusso di positroni nei raggi cosmici, rappresentano la prima chiara anomalia di questo tipo.

Per spiegare questa anomalia ci sono essenzialmente due diversi scenari.
Secondo gli astrofisici basterebbe la presenza di una pulsar nelle vicinanze del nostro sistema solare.
Le pulsar sono oggetti stellari estremamente affascinanti: minuscole stelle di neutroni, che irradiano energia sotto forma di raggi gamma.
Questi fotoni, a loro volta, creerebbero coppie di elettroni e positroni dell'energia osservata da FERMI, ed ecco spiegato l'eccesso di raggi cosmici.
Al momento però gli astronomi non hanno ancora identificato l'ipotetica pulsar sorgente.
Per i fisici delle particelle l'origine dell'anomalia sarebbe invece la materia oscura in persona, che grazie ad una serie di reazioni a catena, produrrebbe fotoni ad altissima energia, capaci di generare il famigerato eccesso nel flusso di positroni.
Secondo il fisico americano Neil Weiner, dell'Università di New York, la materia oscura apparterrebbe ad un nuovo “settore oscuro” dell'universo.

Quest'ultimo scenario è molto intrigante: suggerisce la presenza di una complessa struttura all'interno del settore oscuro, con “particelle oscure” e “forze oscure”, del tutto simili a quelle presenti nel mondo visibile.
Weiner rovescia i ruoli e arriva a ipotizzare l'esistenza di “Mr. Dark Matter”, un alieno che vive nel settore oscuro e studia l'astrofisica oscura.
Mr. Dark Matter è molto sorpreso dalle sue osservazioni, perché ha scoperto che la materia oscura, di cui è fatto, rappresenta solo i quattro quinti della materia presente nella sua Via Lattea Oscura e arriva ad ipotizzare l'esistenza di una fantomatica “materia visibile” che non interagisce con le forze oscure ma solo con la gravità.
Chissà che un giorno, quando grazie a LHC avremo carpito i segreti del settore oscuro, non ci si possa mettere in contatto con Mr. Dark Matter: occupiamo entrambi la stessa porzione di spazio, ma ancora non riusciamo a comunicare...

sabato 20 ottobre 2012

Africa addio oro blu'...

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Le acque del Mar Morto si stanno ritirando sempre più rapidamente: alla media di 98 centimetri.
Un deficit idrico che interessa tutto il pianeta e che nel 2020 arriverà a colpire la metà della popolazione mondiale.
Tre miliardi di persone: uomini, donne e bambini che non avranno accesso a quel bene comune e a quel patrimonio dell'Umanità che è l’acqua.
Un deficit globale che investe gran parte del mondo, che in Nord Africa è già emergenza e che in Medio Oriente è ormai una realtà quotidiana; risultato di una domanda che negli ultimi 50 anni è triplicata, di una politica dell’ambiente che ha influito in modo determinante sull’aumento della temperatura terrestre, sul prosciugamento dei fiumi, sulla scomparsa dei laghi, sull’evaporazione dei bacini e su una diversa distribuzione delle piogge.

In Medio Oriente l’esaurimento delle acque sotterranee non risparmia nessuno: nella regione pakistana del Beluchistan settentrionale il livello dell’acqua sta diminuendo ad un ritmo tale che entro il 2020 la capitale Quetta potrebbe rimanere completamente a secco.
Negli ultimi decenni lungo la pianura del Punjab la profondità dei pozzi è cresciuta ad una media di 2 metri all’anno e in Iran il prosciugamento delle falde costringe intere comunità contadine ad abbandonare le campagne; nell’Arabia settentrionale l’agricoltura è ormai sopraffatta dalla sabbia e negli ultimi quindici anni la raccolta del frumento è scesa del 35%, mentre nello Yemen occidentale l’oro blu viene cercato a profondità che sfiorano i due chilometri, misura normalmente utilizzata per l’estrazione del petrolio.

In Egitto il Nilo è passato dai 32 miliardi di cubi metri d’acqua, scaricati nel Mediterraneo negli anni sessanta, agli attuali 2 miliardi: un dato che spiega il crollo della produzione agricola e l’aumento vertiginoso dell’ importazioni di cereali.
In Siria ed Iraq la riduzione del flusso d’acqua del Tigri e dell’Eufrate ha già causato la scomparsa dell’80% delle aree umide che un tempo rendevano florida la “mezzaluna fertile”, mentre il lago di Tiberiade e il Mar Morto, entrambe alimentati dal fiume Giordano, si stanno lentamente ma inesorabilmente prosciugando.

In questa nuova guerra per la sopravvivenza la Giordania, uno dei 10 paesi più poveri al mondo in quanto a risorse idriche, rappresenta forse il caso più emblematico, il precursore di quello che da qui a pochi anni potrebbe accadere in tutta la regione mediorientale. Ad Amman la scarsità dell’oro blu si sta trasformando in un vero e proprio business, la leva che in questo momento muove l’economia giordana: la fornitura governativa è praticamente settimanale e ogni giorno, presso i distributori privati, si assiste al rifornimento di dozzine di autocisterne che, dopo quattro o cinque ore di fila, trasportano l’acqua in città per la vendita al dettaglio.

La Giordania con un territorio desertico per il 92% è alla fine, le risorse idriche non sono alimentate: “Non abbiamo acqua di superficie, ne riserve idriche o laghi; niente di niente.

Negli ultimi anni il fiume Giordano ha perso gran parte della sua portata, soprattutto per effetto dello smodato sfruttamento delle acque e a causa delle dighe costruite lungo il suo corso da Siria, Israele e Giordania.
Il primo a pagare la crisi del fiume, il cui destino va di pari passo con la crescita demografica e con l’aumento dei consumi agricoli e industriali dei tre paesi, è sicuramente il Mar Morto, il bacio naturale che molti ormai danno per spacciato. Ad aggravare la situazione c’è poi il clima politico che dal 1948 imperversa nel vicino Medio Oriente.

Siria ed Israele continuano a contendersi le alture del Golan mentre Amman accusa Gerusalemme di non rispettare le clausole dell’accordo di pace sottoscritto nel 1994 a Wadi Arava. Il trattato, nel quale si fa specifico riferimento al regime di gestione comune delle acque, prevede infatti lo sviluppo di iniziative comuni affinché vengano trovati i mezzi e le risorse per fornire alla Giordania 50 milioni di metri cubi d'acqua potabile all'anno.

Le autorità del regno Hashemita di Giordania sono certe che a questo punto, oltre agli interventi locali finalizzati al recupero dell'efficienza idrica delle rete nazionale, l’unica strada percorribile è quella di ottenere l’acqua attraverso due grandi progetti: la realizzazione di una conduttura lunga 320 chilometri dove dovrebbe essere incanalata l’acqua estratta dai bacini sotterranei di al-Disi, le falde fossili che la Giordania condivide con l’Arabia Saudita, e lo sfruttamento del Mar Rosso, 200 milioni di metri cubi di acqua marina destinati per metà alla desalinizzazione per uso civile e per il 50% al Mar Morto.

Problemi quindi, per una situazione di emergenza che non può più attendere, che entro qualche anno potrebbe trasformarsi in dramma, minare la stabilità sociale ed economica dell’intera Giordania.
Ma che non si fermerà ai confini, perché come la religione e le ideologie, anche il bisogno d’acqua muove milioni di persone.

lunedì 15 ottobre 2012

Animali mai visti...

MAI VISTI !!


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Alpaca

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Yeti Crab

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Star Nosede Mole

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Proboscis Monkey

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Pink Fairy Armadillo

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Hag Fish

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Frill Necked Lizard

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Ettarsier

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Emperor Tamarin

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Dumbo Octopus

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Blob Fish

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Aye Aye

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Axolotl

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Angora Rabbit

martedì 9 ottobre 2012

Bonnie e Clyde

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Loro sono un duo fuori dal comune: nella contea inglese di Norfolk vivono due border collie, dei quali uno è cieco e l'altro un cane da guida per ciechi.
Suona come una di quelle storie strappalacrime Disney raccontate da Hollywood: un cane cieco e il suo cane da guida, Bonnie e Clyde, questi i loro nomi, aspettano in un canile inglese l'arrivo di un padroncino.
Gli inseparabili collie vagavano sotto la pioggia incessante nelle campagne inglesi fino a quando, nei pressi di una strada provinciale, sono stati catturati dai collaboratori di un centro soccorso animali.
All'inizio i volontari del canile non riuscivano a spiegarsi il motivo per cui uno dei due seguiva costantemente l'altro.
Poi la scoperta: Bonnie è il cane guida di Clyde, rimasto cieco a causa di una malattia degenerativa.
Quando Clyde si sente insicuro, comincia a tastare dietro a Bonnie e poggia il suo muso sulla sua schiena, così che possa guidarlo, si fida completamente di lei.
Clyde ha circa cinque anni, Bonnie due o tre.
Entrambi hanno il pelo bianco e nero. E la loro storia ha fatto il giro del mondo.
Da dove arrivino, non è ancora chiaro.
Non avevano nessuna piastrina quando sono stati trovati.
I due collie non possono vivere l'uno lontano dall'altro, se lei corre, subito tende a fermarsi, per essere sicura che lui sia con lei.
Quando non c'è la compagna, lui non ha il coraggio di fare neanche un passo,
e lei lo tiene perennemente sott'occhio.
Se li vedi insieme nessuno si accorge che uno dei due non ha la vista.
E la vita scorre normalmente.

giovedì 4 ottobre 2012

La meta di Bobby

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Non c'era più nulla da fare. Bobby, ormai in agonia, stava morendo, a soli 24 anni, per complicazioni polmonari in seguito a un'operazione di appendicite.
Fu allora che il poveretto, trovando chissà dove la forza, ebbe un piccolo sussulto. Si intuì un vago movimento delle labbra, forse il tentativo di dire qualcosa. Qualcuno, si avvicinò al letto.
"Vuoi dire qualcosa, figliolo?". "Sì", la risposta, pronunciata con le ultime molecole di ossigeno rimaste nei polmoni: "Io quella meta l'avevo segnata". Subito dopo, Bobby morì.
I presenti rimasero attoniti, l'animo diviso tra il dolore per quella prematura morte e la curiosità di quell'ultima frase.
Subito si pensò al delirio dettato dall'agonia. Ma non era così, e il mistero di quelle parole venne in fretta svelato.
Perché in Nuova Zelanda, nel 1908, nessuno ignorava una partita di poco più di due anni prima. E nessun appassionato di rugby poteva dimenticare quanto accaduto il 16 dicembre 1905.
Era, quella, la data dell'ultimo incontro degli All Blacks nella tournée in Gran Bretagna.
Gli All Blacks sono la Nazionale della Nuova Zelanda: la locuzione "Tutti Neri", per il colore delle maglie della squadra, appare per la prima volta il 12 ottobre 1905 sulle colonne del Daily Mail. "Sessantatré punti a zero a una delle più forti selezioni del Nord, l'Hartlepool club: non ci sono parole per illustrare la bravura degli All Blacks", scrive John Buttery. ignaro in quel momento di consegnare la definizione alla storia.
In realtà pare che il termine "All Blacks" fosse già stati utilizzati in altre due circostanze, prima dal The Express and Echo, un giornale di provincia, quindi dal neozelandese Northern Daily Mail. Ma ci sono versioni contrastanti persino sul titolo del Daily Mail di quel 12 ottobre. Buttery, infatti, aveva forse parlato di "All Backs", tutti indietro, considerando in pratica i neozelandesi una formazione così veloce da essere composta di soli trequarti.
Ma una volta arrivato il pezzo in tipografia qualcuno pensò a un errore di battitura. Quel "Backs" venne così corretto in "Blacks", neri, visto che molti in Inghilterra pensavano ai neozelandesi come a una popolazione di colore.
"All Blacks", dunque, e l'ignaro e sconosciuto tipografo dava un nome a una formazione già epica.
La squadra arrivata dagli antipodi, era infatti nota sino a quel momento come "Colonials", termine che nasceva naturale nel periodo di massimo splendore dell'Impero britannico, di cui la Nuova Zelanda faceva parte.
In quel Tour gli All Blacks danno spettacolo, attirando folle immense alle partite e seppellendo di punti gli avversari: nell'incontro con l'Inghilterra, vinto per 15-0, allo stadio del Crystal Palace ci sono 45.000 spettatori paganti e, secondo la stima fatta dagli organizzatori, almeno altri 30.000 che in qualche modo riescono a sfuggire al passaggio al botteghino pur di ammirare i favolosi "Tutti Neri".
Poco male per il cassiere, che al termine della giornata registrerà un incasso di 1039 sterline, una somma folle all'epoca.
Si arriva, dunque, al 16 dicembre, ultima delle undici sfide previste in appena 31 giorni.
Gli All Blacks sono attesi in Galles, dove il rugby è una religione. Alla stazione di Cardiff la polizia deve trattenere la folla che vuole vedere da vicino i giocatori che hanno distrutto inglesi, scozzesi e irlandesi.
In Galles, infatti, già allora giocano tutti, specie i rudi minatori, che appena risaliti dai cunicoli si ripuliscono dal carbone e vanno a esibirsi con la palla ovale.
E quell'anno la Nazionale aveva conquistato la "Triple Crown", la tripla corona, avendo battuto Irlanda, Scozia e, quel che più conta per i gallesi, l'Inghilterra.
In una giornata grigia e fredda 47.000 spettatori si accalcano così all'Arms Park di Cardiff.
Uno stadio, si dice, che in Galles non si trova: perché è il Galles a essere dentro l'impianto e non viceversa.
Vogliono vedere la gara in cui si sfidano quelle che, potenzialmente, sono le migliori nazionali al mondo.
Una partita che si annuncia come la più difficile della tournée degli All Blacks: la stanchezza per i molti incontri sostenuti, gli infortuni subiti (sono assenti tre dei migliori, Smith, Stead e Cunningham) e le qualità del Galles rendono durissimo il compito dei neozelandesi.
Proprio per questo c'è nervosismo già prima del calcio d'inizio.
Le controversie cominciano dalla designazione dell'arbitro: i neozelandesi rifiutano di sceglierne uno nel quartetto proposto dai gallesi.
E altrettanto fanno i padroni di casa con i quattro nomi suggeriti dagli ospiti.
Alla fine, la scelta cade su uno scozzese, John Dallas.
Quest'ultimo è stato un eccellente giocatore con il club dei Watsonians e con la sua Nazionale: costretto a interrompere l'attività agonistica in seguito a una malattia, decide di proseguire l'avventura nel rugby come direttore di gara.
Ma nel 1905 Dallas arbitra da sole due stagioni e con appena 27 anni è addirittura più giovane dei capitani delle squadre.
Si teme, insomma, non abbia sufficiente esperienza per dirigere uno scontro di quel livello.
Ad Arms Park è subito battaglia, ma gli eserciti non sono in equilibrio. Da una parte gli All Blacks, ormai stremati dalle tante partite disputate. Dall'altra, in pratica, tutto il Galles: quindici uomini in campo, 47.000 in tribuna. Nel freddo di Arms Park, sul fango del terreno, le difese sembrano inizialmente avere la meglio sugli attacchi.
Poi, grazie alla solidità dei propri avanti e alle qualità dei due mediani, quello di mischia Dickie Owen e l'apertura Percy Bush, i gallesi sembrano dilagare, coronando al 25' la loro superiorità.
Un'azione velocissima: da Owen a Cliff Pritchard, quindi a Rees Gabe. è quest'ultimo a servire Teddy Morgan, ala dei London Welsh, un piccoletto con la faccia da adolescente.
Evitato il placcaggio di McGregor, Morgan va in meta.
Sotto di tre punti (tanto, infatti, valeva allora la meta), i neozelandesi si scatenano. Fiaccati dalla lunghissima tournée, buttano in campo più la rabbia per essersi ritrovati sotto nel punteggio che la lucidità. Ma la furia degli "All Blacks" basta a cambiare il corso della partita.
Adesso il campo è sommerso da una crescente marea nera. Con orgoglio, i gallesi si assiepano a difesa della propria linea di meta: Land Of My Fathers, la terra dei miei padri, è il titolo dell'inno nazionale.
E quella linea bianca adesso è davvero il confine di quella terra, da difendere come in trincea. Ma non c'è niente da fare. Dopo una rimessa laterale, la palla arriva a Billy Wallace.
Quest'ultimo è stato il miglior realizzatore nella tournée degli All Blacks: merito delle sue mete, ma soprattutto della sua precisione nella trasformazione dei calci. Wallace, ricevuta palla, inizia a correre. Vede davanti a sé la linea di meta, ma anche l'arrivo di un avversario, Winfield. La strada è sbarrata: Wallace, tutto spostato su un lato del campo, non può ricevere sostegno alla sua sinistra.
Guarda allora a destra. Lì, nel frastuono di 47.000 voci che sembrano poter disintegrare l'Arms Park, ne distingue una: è quella di Bobby Deans.
Il ventiduenne talento degli All Blacks sta tagliando verso il centro, con una velocità pari solo a un'altra cosa: il volume della sua voce.
Perché Bobby urla talmente forte da farsi sentire da Wallace: "Billy, Billy…", è il grido di Deans, che si sta sbracciando per chiedere il pallone.
Wallace non solo ha identificato la voce, ma ne distingue anche il proprietario. Adesso vede quell'unica maglia nera in mezzo a quelle rosse del Galles e lì indirizza il pallone, che Deans è pronto a far suo. La linea di meta è vicina: il ventiduenne centro del Canterbury si infila in mezzo alla marea rossa. E l'unica maglia di quel colore in grado di seguirlo appartiene a Morgan.
Proprio lui, l'autore della meta che tre minuti prima ha portato in vantaggio il Galles. è un duello di velocità, ma anche di tempi: e Morgan arriva a placcare Deans proprio quando il neozelandese schiaccia la palla in meta.
O, almeno, questo è quello che credono Deans e i neozelandesi. Perché l'arbitro, che si ripara dal freddo con una palandrana e indossa scarpe utili contro il fango ma che impediscono una corsa veloce, è piuttosto distante dall'azione: e quando arriva sul posto, non concede la meta. Eppure Deans aveva urlato "toccato", come si usava allora tra i giocatori dopo la segnatura. Da poco il rugby aveva infatti introdotto la figura dell'arbitro, giudicata all'inizio inutile in uno sport praticato da galantuomini: a regolare le partite provvedevano gli stessi capitani delle squadre. Prevaleva insomma lo spirito sportivo, e proprio l'assenza del direttore di gara imponeva di segnalare a voce la meta da parte dell'autore.
Un'abitudine che i giocatori di inizio Novecento avevano conservato, nonostante l'introduzione della figura dell'arbitro.
Quella volta la segnalazione di Deans non bastò: nel placcaggio il centro neozelandese era stato probabilmente trascinato indietro, e prima dell'arrivo dell'arbitro Dallas il pallone spostato dal punto in cui era stato schiacciato al terreno.
Sono le 15.28 quando il direttore di gara decide di non concedere la meta. Un'ora che, insieme alla data del 16 dicembre 1905, è destinata a restare nella storia del rugby.
Nel resto della partita gli All Blacks non furono infatti in grado di segnare: battuti per 3-0, subirono così l'unica sconfitta di una tournée che li aveva sin lì visti solo vincitori.
Ma era evidente che se quello era il punteggio della partita, la storia del match non si era certo chiusa con il fischio finale di Dallas.
E visto che le regole non scritte del rugby impongono ai giocatori di non contestare sul campo le decisioni arbitrali, Deans provvide allora a far conoscere la propria versione dei fatti attraverso questa dichiarazione al Daily Mail: "Ho schiacciato la palla 15 centimetri oltre la linea, e alcuni giocatori gallesi hanno ammesso la meta. I miei compagni di squadra Hunter e Glasgow possono confermare che sono stato tirato indietro prima dell'arrivo dell'arbitro". Non è una frase da poco.
Anzitutto per l'assoluto fair-play che esiste nel rugby, e per la fama di cui gode Deans.
Cresciuto in una famiglia colta e benestante, Bobby è stimatissimo dai compagni, cui spesso offre regali o soldi per ogni necessità. è inoltre assai devoto, regolarmente presente in chiesa per la messa: impossibile, insomma, che possa mentire.
Eppure di quella meta si continua a parlare. Non solo nel giorno della partita, quando dall'ufficio telegrafico di Cardiff vengono spediti qualcosa come 35.000 messaggi, contro una media giornaliera di 800. Ma anche in seguito: l'arbitro Dallas, subito dopo la gara, ha preso il treno per Edimburgo, e solo con qualche giorno di ritardo apprende delle contestazioni neozelandesi sulla meta non concessa a Deans. Ma il direttore di gara resta convinto della propria decisione, e cioè di avere visto Deans mettere la palla a terra 15-30 centimetri prima della linea di meta. "In quel momento non poteva né passare né giocare il pallone. E quando arrivai sotto i pali del Galles fischiai, chiaro e forte". Una testimonianza conservata nel museo del rugby a Cardiff, insieme al fischietto di quell'incontro. Ma la versione dell'arbitro scozzese non convince, anche perché Dallas, la cui corsa è resa complicata dal cappotto che indossa, arriva in zona diversi secondi dopo il placcaggio fatto da Morgan a Deans. Né aiuta l'analisi degli articoli scritti dagli inviati all'incontro, unitamente alle testimonianze dei presenti. Il lavoro produce infatti solo un risultato: quell'episodio continua ad avere storie discordanti. Non c'è certezza neppure sull'autore dell'ultimo placcaggio: qualcuno sostiene che ad effettuarlo non fu Morgan, bensì Gabe. Ma se il mondo del rugby è incerto e diviso, Deans invece non ha dubbi. "Io quella meta l'avevo segnata", continua a ripetere. A credergli sono sostanzialmente tutti i neozelandesi, in primis naturalmente i compagni di squadra. In Galles, invece, la pensano in modo diverso: la storia si tramanda dai padri ai figli, e la versione si chiude sempre alla stessa maniera: "Non era meta". Per questo Deans cercò, attraverso i giornali, testimonianze soprattutto in Galles, dove molti invece giudicano esatta la decisione dell'arbitro Dallas di non concedere la meta. Ma a Bobby restavano poco più di due anni di vita. E persino sul letto di morte, non rinunciò a rivendicare quella segnatura contro il Galles, "I really scored the try".
La questione era ben lontana dall'essere risolta.
Insieme alla meta, infatti, anche quella frase di Bob non viene dimenticata: qualche anno dopo, nel 1924, gli All Blacks tornano in Galles. è la seconda tournée dei neozelandesi in Gran Bretagna. Per l'occasione viene allestito uno speciale banchetto: tra gli invitati alcuni dei giocatori protagonisti del primo tour dei Tutti Neri, insieme ai loro rivali della partita all'Arms Park di Cardiff. Tra questi c'è Morgan, l'autore dell'unica meta di quella partita, oltre che del placcaggio su Deans. Sono passati anni, ma il gallese non fatica a riconoscere uno degli avversari di quel giorno: Billy Wallace, l'ala degli All Blacks che aveva dato il via all'azione più controversa della storia.
Si trovano seduti a due tavoli: Morgan prende il cartoncino del menù, scrive poche righe, lo fa avere a Wallace. Billy, letto il messaggio, alza gli occhi verso quel leale ex avversario. I due si sorridono. Quel cartoncino è oggi conservato nel museo del rugby in Nuova Zelanda. Sopra c'è scritto: "A Billy Wallace da Teddy Morgan. Bobby Deans ha veramente segnato a Cardiff nel 1905".
Quella partita, giudicata dal giornalista neozelandese C.C. Reade come "la più bella della storia del rugby", era finita. E Bobby Deans, diciannove anni dopo, aveva finalmente riavuto la sua meta.