domenica 30 settembre 2012

Archimede

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Archimede nacque a Siracusa nel 287 a.C., figlio d’un astronomo di nome Fidia, noto per avere tentato di stabilire il rapporto di grandezza tra il sole e la luna. Plutarco nella “Vita di Marcello” scrive che egli era parente ed amico del re Ierone II sostenendone un’origine nobile dalla famiglia dei Gelonidi.
In effetti molte fonti confermano una sua frequentazione presso la reggia del re e di una vera amicizia tra i due.
I suoi studi iniziarono in patria, allora una città fiorente nel commercio ma anche nella cultura; per approfondire i suoi studi viaggiò molto in Grecia, in Asia Minore e in Egitto ove sostò ad Alessandria, sede allora della famosa biblioteca diretta da Eratostene di cui era grande amico, e col quale Archimede manteneva un fitto rapporto epistolare e d’amicizia.
Si pensa che in occasione di quella visita al grande amico, Archimede abbia inventato la coclea oggi nota come “vite di Archimede” che permette di sollevare una certa quantità di acqua da un livello più basso ad uno più alto.
Esso era costituito da un tubo avvolto elicoidalmente attorno ad un asse inclinato e munito di manovella per farlo girare, usando poi dei canali ottenne un efficiente sistema di irrigazione.
Archimede tra l’altro era anche in contatto con altri scienziati dell’epoca come Conone, Dositeo e Zeusippo coi quali confrontava le sue scoperte.
Nel 274 a.C. Ierone II salì al potere concedendo alla città un periodo di pace e prosperità a causa di un florido rapporto di amicizia con i Romani che consentirono di mantenere fuori il regno dalle sanguinose lotte Puniche.
Archimede come abbiamo detto fu amico del re, il quale lo mantenne sotto la sua protezione consentendogli di sviluppare i propri studi anche per usi militari.
Ecco il ritratto che ne fa di lui Plutarco:
«Egli poneva la sua intera dedizione e ambizione in quelle purissime speculazioni senza alcun riferimento ai bisogni volgari della vita; studi la cui superiorità su tutti gli altri è fuori di dubbio, e in cui la sola incertezza è se sia la bellezza e la grandezza dei temi esaminati, o la precisione e la forza dei metodi adottati, a meritare di più la nostra attenzione.
Non è possibile trovare in tutta la geometria questioni più difficili e intricate, o più semplici e lucide dimostrazioni.
Alcuni ascrivono questo al suo genio naturale; altri ritengono che solo un incredibile sforzo e grande pena hanno prodotto risultati così chiari ed eleganti. Per quanto grande sia il tuo sforzo, non riusciresti a trovare la dimostrazione, eppure, una volta vista, subito pensi che certo avresti potuto trovarla; tanto rapido e agevole è il suo cammino attraverso il quale egli ti porta alle conclusioni richieste dal problema…
Quando egli veniva occasionalmente trascinato con la forza dai servitori a bagnarsi e a oliare il suo corpo, continuava a tracciare figure geometriche sulla cenere e diagrammi sul suo corpo, in uno stato di completa concentrazione e nel senso più proprio, di divina ossessione per il suo amore e piacere nella scienza»
Ma cominciamo dapprima col parlare dei libri che scrisse colui che è considerato il più grande scienziato dell’antichità:
Sull’equilibrio dei piani è un doppio libro che comprende studi sulla leva e una serie di considerazioni sulle figure rettilinee e sui centri di gravità del triangolo e del trapezio.
Il secondo libro invece si concentra sul baricentro di una parabola usando il metodo di esaustione. Esso permette di calcolare o verificare il valore di una grandezza con delle approssimazioni sempre minori man mano che si procede con il metodo.
Un esempio è il calcolo dell’area di una superficie curva, utilizzando una quantità sempre maggiore di rettangoli o parallelogrammi è possibile, all’aumentare della quantità, ottenere una misura sempre più precisa dell’area.
Questo metodo è alla base del calcolo delle derivate, dei limiti e della matematica infinitesimale scoperta nel 600 da Newton.
Il concetto di baricentro come punto di applicazione di tutte le forze di un solido era già conosciuto all’epoca, ma fu Archimede a darne una teoria razionale e un’esplicita definizione di centro di gravità, trovando inoltre i centri di gravità delle principali figure geometriche: triangolo, rettangolo, cerchio e poligoni regolari.
Stabilisce quindi che ogni oggetto ha un baricentro e che tramite la sua conoscenza è possibile ottenere le migliori applicazioni della meccanica e della statica, che sotto molti aspetti è nata grazie a Archimede.
Intorno alle cose che stanno sull’acqua è diviso in due libri, la cui prima parte pare avere riferimento alla vicenda della corona del re Ierone che fece seguito alle varie scoperte nell’idrostatica secondo le indicazioni di Vitruvio.
Si racconta che il re Ierone fece commissionare ad un orafo siracusano una corona d’oro da votare agli dei.
Ma il re temendo che la quantità di oro fornitagli fosse in realtà stata usata solo in parte per far posto dell’argento, chiese allo scienziato di risolvere il dubbio. Come riuscire a capire quanto oro e argento fosse stato usato senza dover fondere nuovamente la corona?
Partendo dal principio che un corpo immerso in un liquido sposta tanta acqua quanto il peso del suo volume, prese una massa d’oro e poi una d’argento dello stesso peso della corona e le immerse in un recipiente colmo d’acqua, raccogliendo poi l’acqua versata.
Essendo il volume dell’oro e dell’argento differente a parità di peso, la quantità di acqua spostata risultava differente, sicché fu facile scoprire la frode dell’orafo. Si dice quindi che il re avuta la soluzione dal grande scienziato fu preso da grande meraviglia promettendosi d’ora in poi di non prestar fede a nessuno se non dopo aver parlato con Archimede.
Nella seconda parte del libro Archimede accresce la difficoltà dei calcoli supponendo la superficie di un liquido non piana ma sferica.
Il trattato divenne famoso tanto da indurre Galileo a scrivere il suo Discorso intorno alle cose che stanno sull’acqua dove prende le difese di Archimede contro gli attacchi di un Aristotelico del suo tempo.
Sui galleggianti è un’opera anch’essa divisa in due libri contenente il famoso principio. “Qualsiasi solido più leggero di un fluido, se collocato nel fluido, si immergerà in misura tale che il peso del solido sarà uguale al peso del fluido spostato” e inoltre “Un solido più pesante di un fluido, se collocato in esso, discenderà in fondo al fluido e se si peserà il solido nel fluido, risulterà più leggero del suo vero peso e la differenza di peso sarà uguale al peso del fluido spostato”.
Viene così introdotto il concetto di peso specifico relativo che in passato era stato ignorato. Oltre alla proprietà dei fluidi tratta anche l’equilibrio di segmenti paraboloidi immersi in un fluido mostrando che la posizione di quiete dipende dal peso specifico relativo del paraboloide e del fluido in cui galleggia: esso è alla base del criterio di costruzione degli scafi delle navi.
La scoperta della spinta idrostatica avvenne come tutti sappiamo casualmente, quando Archimede immersosi nelle acque del mare percepì la spinta come un alleggerimento del suo peso. Si dice che alla scoperta egli avesse urlato la famosa frase “eureka!” che vuol dire “ho trovato!” e che da qual momento fosse corso nel suo studio per approfondire meglio la scoperta.
Sul principio suddetto è da citare la diffusione della bilancia idrostatica che consente di misurare la densità di un corpo.
Sulla misura del cerchio è un piccolo trattato probabilmente incompleto legato a quello della sfera e del cilindro, in cui si parla dei rapporti tra cerchi e triangoli, del rapporto tra il cerchio e il suo diametro esprimendo il valore del π con una precisione migliore di quella ottenuta dai matematici egiziani e babilonesi. Egli immaginò di inscrivere e circoscrivere dei poligoni regolari di 96 lati su di un cerchio di raggio unitario, calcolando il perimetro dei due poligoni riuscì ad approssimare con una certa precisione la misura del π, ossia: “la circonferenza è uguale al triplo del diametro più una certa porzione del diametro stesso più piccola dei 10/70 e più grande dei 10/71 del diametro stesso”, quindi 3,1416.
Il procedimento usato, un po’ come il metodo di esaustione fa si che all’aumentare del numero dei lati dei poligoni lo scarto di precisione della misura aumenti.
Si dice anche che egli abbia provato una misura con un poligono con ben 384 lati!
Sulle spirali fu un trattato molto ammirato ma poco letto perché considerata un’opera assai difficile. Si commentano degli studi sulle spirali, una figura scoperta da Archimede e studiata da lui nel dettaglio.
Quadratura della parabola è il primo esempio di quadratura di una curva dopo quella del cerchio.
Egli ottenne questo risultato usando sempre il metodo di esaustione di cui scoprì anche che l’area del segmento parabolico è uguale ai 4/3 dell’area di un triangolo avente la stessa base e uguale altezza della curva.
Sui conoidi e sferoidi è un libro in cui Archimede parla dei conoidi e degli sferoidi ottenuti dalla rotazione di ellissi, parabole e iperbole.
Le loro proprietà sono simili a quelle del cono e della sfera pertanto il trattato parla proprio di queste figure, descrivendone i rapporti.
Inoltre vi è descritta la procedura per trovare l’area di un ellisse, ottenuto con un processo simile al moderno metodo di integrazione, differendo principalmente per la mancanza del concetto di limite di una funzione.
Sulla sfera e sul cilindro è scritto in due libri ove si trattano i rapporti tra i volumi del cilindro e della sfera.
La geometria antica fino a Euclide restringeva le proprie conoscenze alle proprietà delle figure piane: si conosceva come misurare la superficie di un triangolo, di un parallelogrammo di un trapezio, ma si ignorava la misura della circonferenza di un cerchio. Stessa situazione per i solidi, si sapeva misurare il volume di un prisma, di una piramide, ma si ignorava il rapporto per determinare il volume di una sfera, di un cilindro e di un cono.
Archimede con la quadratura del cerchio e dei volumi determinò i rapporti. Egli infatti per primo risolse il problema della misurazione delle geometrie curve.
Così ottenne: la superficie di un cilindro, di un cono, della sfera, il volume di un cilindro, di un cono e di una sfera. Inoltre trovò il rapporto tra una sfera e un cilindro inscritto.
L’arenario ovvero il contatore dei granelli di sabbia è un’opera numerica che suppone l’esistenza di un numero sufficientemente grande per contare i granelli di sabbia dell’Universo.
L’opera è dedicata a Gelone figlio del re Ierone II, ecco l’incipit: “Ci sono alcuni, o re Gelone, che ritengono i granelli di sabbia essere una moltitudine infinita…”. Egli voleva determinare con questo conteggio il volume dell’intero universo, ma per fare questo aveva bisogno di prendere a riferimento un modello di universo.
Difatti la teoria di Aristotele e Ipparco sosteneva la geocentricità dell’universo, mentre quella di Aristarco di Samo era eliocentrica.
In questa seconda ipotesi il moto della Terra nel corso della propria orbita avrebbe dovuto produrre un effetto di parallasse delle stelle che avrebbe dimostrato la veridicità del modello.
Ma viste le distanze in gioco la misura risulta essere assai piccola e non ancora misurabile, così Aristarco difendendo il suo modello sosteneva delle distanze tra i corpi molto più grandi di quelle geocentriche.
Archimede quindi decise di affrontare il caso più difficile calcolando il volume dell’universo di Aristarco e sostenendo con forza la teoria eliocentrica ben 1700 anni prima di Copernico!
Bisogna sapere che all’epoca la numerazione greca, seppur aveva già fatto notevoli passi avanti, aveva delle limitazioni nel conteggio di numeri grossi, quelli che servivano in campo astronomico.
Essi dividevano i numeri in periodi di 10, ignorando la rappresentazione semplice che conosciamo noi, usando 36 caratteri differenti tratti dal loro alfabeto per rendere l’aritmetica regolare e possibile.
Con i 36 caratteri esprimevano tutti i numeri al di sotto di 10.000.
Poi per esprimere numeri di decine di migliaia apponevano la lettera M sotto il carattere, rendendo il numero 10 mila volte maggiore.
Il sistema in effetti era complesso e penoso e Archimede intuì un sistema per i numeri grandi.
Così da tale metodo per ottenere numeri enormi a cui doveva far fronte, partì da 10.000 che chiamò “numero di primo ordine” e moltiplicandolo per se stesso ottenne il numero di 100 milioni “numero di secondo ordine”.
Prendendo questo numero come unità giunse ai numeri di terzo ordine col quale riuscì a esprimere qualsiasi quantità.
Egli poi divise i numeri in periodi o ordini di otto cifre che denominò ottadi, un sistema che gli semplificò i calcoli.
Stabilite queste quantità Archimede calcolò il numero di grani di sabbia necessari per riempire una sfera del diametro di un dito, poi di 100, di uno stadio, di 10.000 stadi e così via, giungendo al risultato finale che l’Universo (ristretto allora al sistema solare) è definibile con un numero finito.
A tal proposito scriveva: “Queste cose ritengo che sembreranno incredibili ai molti imperiti nelle matematiche, ma saranno credibili da coloro che vi sono versati e che abbiano meditato sulle distanze e sulle grandezze della Terra, del Sole, della Luna e di tutto il cosmo”.
Il valore dell’opera dunque risiede non solo nel tentativo di usare una numerazione più semplice per i numeri grandi le cui regole postulate precorrono persino quelle del calcolo logaritmico, ma soprattutto nell’intuizione di una ricerca tanto ardua che persino oggi mantiene una difficoltà insuperata.
Nel testo inoltre si parla della misura del diametro apparente del sole nel quale afferma altresì: «Mi sono sforzato a prendere con istrumenti l’angolo che comprende il Sole e che ha al suo vertice l’occhio dell’osservatore; ma questo angolo non è facile a prendere, poiché con l’occhio, con le mani e con gli istrumenti in uso per questo, non è possibile misurarlo con esattezza; essendo inutile parlare dell’imperfezione di tali istrumenti, ciò fu detto diverse volte; ma del resto mi basta per dimostrare la mia proposizione, di prendere un angolo che non sia maggiore di quello che comprende il Sole e che ha il suo vertice nell’occhio dell’osservatore; e poi altro angolo che non sia minore di quello che contiene il Sole e che abbia pure il vertice all’occhio dell’osservatore».
Le parole di Archimede sono importanti in quanto anticipano di secoli il concetto di rigore scientifico e di precisione della misura.
Il libro dei lemmi è un altro libro che rientra nel campo della matematica e della geometria. Il testo non è pervenuto originale ma attraverso una traduzione araba che ne ha alterato sicuramente la genuinità.
Il lemma è una proposizione preparatoria destinata a provarne un’altra, che abbia relazione diretta col soggetto trattato.
Tra le proposizioni vi è quello famoso sulla proprietà delle corde oltre ad una serie di teoremi e risoluzioni matematico-geometriche.
Il metodo è un’opera per certi versi curiosa e fu scoperta solamente nel 1906.
In essa Archimede descrive il suo metodo d’indagine preliminare che lo conduceva alle principali scoperte matematiche.
Vi sono dei passaggi scritti sotto forma di lettera per Eratostene. Esso avveniva considerando superfici e volumi come una sommatoria infinita di elementi sottili con un loro peso e un baricentro.
Pertanto riuscì a intuire e poi a dimostrare diverse relazioni esistenti tra figure geometriche immaginando di pesare i singoli elementi con una bilancia. Un esempio è la relazione tra l’area di un segmento parabolico e quella di un triangolo inscritto, pari a 4/3.
Ma nel libro si parla anche di come giungesse intuitivamente alla scoperta di relazioni tra misure geometriche e matematiche.
Egli ricorreva alla misurazione diretta di figure geometriche per poi voler dimostrare matematicamente la sua veridicità.
Qualsiasi matematico in genere si vergognerebbe a divulgare una sua scoperta nata da misure dirette, tuttavia lo stesso metodo lo adottò anche Newton il quale ritardò l’uscita di molte scoperte matematiche onde trovare la forma rigorosa che nascondesse in metodo archimedeo.
Dunque per Archimede qualunque mezzo è utile per giungere al suo scopo, purché poi esso venga davvero dimostrato.
Si sa che Archimede scrisse altre opere andate perdute, un trattato sui poliedri semiregolari, sulla costruzione delle sfere, sulle bilance e sulle leve, una sugli specchi e uno su di un sistema numerico.
La famosa frase “Datemi un punto d’appoggio e vi solleverò il mondo” attribuita allo scienziato siracusano introduce l’argomento della leva.
Come abbiamo detto egli descrisse le sue scoperte all’interno di un’opera perduta, ma Sull’equilibrio dei piani egli espone tutti i principi noti di una leva di primo e secondo genere.
Quella di primo genere ha il fulcro disposto tra la resistenza e la potenza, mentre in quella di secondo genere la resistenza è posta tra il fulcro e la potenza. Su tali principi fondò la costruzione di celebri macchine ad uso civile e da guerra che ebbero una grande utilità pratica.
Ma su queste macchine Archimede non fa menzione poiché egli seppur sospinto dalle richieste del re a costruirne diverse le considerava non degne della nobiltà della scienza; eppure fu maggiormente con esse che egli fece crescere la sua fama nel mondo antico. Difatti costruì carrucole, leve e piani inclinati che ebbero applicazione pratica nel varo di grandi imbarcazioni nei cantieri navali siracusani.
Questi mezzi riuscivano a sollevare grandi pesi col minimo sforzo traendone un vantaggio immenso, infatti l’applicazione di più pulegge per sollevare grandi pesi effettua una demoltiplicazione dello sforzo applicato.
Erone di Alessandria descrive infatti in una delle sue opere una macchina ingegnosa inventata da Archimede chiamata Elice.
Il testo di Erone è mancante, ma Pappo ne lascia una descrizione di questo meccanismo composto di ruote dentate mosse da una vite senza fine; gli ingranaggi accoppiati alla vite senza fine comunicano il movimento demoltiplicandone lo sforzo da applicare tramite la rotazione di una manovella.
Si dice a tal proposito che Archimede fece varare una grossa nave e dopo averla caricata, con l’uso esclusivo di un sistema di leve e carrucole e della forza delle sue braccia, l’abbia tirata a terra con lo stupore dei presenti e del re.
Si pensa poi che questo episodio abbia indotto il re a costruire la leggendaria nave descritta da Moschione, progettata da Archimede e diretta nella costruzione da Archia di Corinto, essa fu l’imbarcazione più imponente dell’antichità: «Del monte Etna provvide il materiale dei legnami, il quale sarebbe stato bastevole per costruire sessanta galee.
Oltracciò fe’ grande apparecchio di chiodi, ferri, pali ed altri strumenti ad ogni uso: la materia, parte dall’Italia e parte dalla Sicilia procurò. […] Nello spazio di sei mesi ne fu compiuta la metà, e questa di tratto in tratto si andava coprendo con lamine di piombo, essendo impiegati all’opera trecento artefici, oltre a tanti altri operai.
Questa parte oramai compiuta ordinò Gerone che si varasse in mare e quivi si continuasse a fabbricare il restante.
Ma essendo cosa malagevole il tirarvela, il solo Archimede con certi suoi ingegni e pochi strumenti varolla: avendo allestita l’elica per mezzo della quale condusse nelle acque così smisurato naviglio.
E fu Archimede il primo che inventò tal macchina.
[…] vi aveva venti ordini di remi e tre entrate, di cui la più bassa metteva alla zavorra, ed in essa scendevasi per molte scale; la seconda presentatasi a coloro che andar volevano negli appartamenti più famigliari; e l’ultima era destinata pei soldati in arme.
Ad un fianco all’altro del ponte di mezzo erano trenta stanze, e ciascuna di esse fornita di quattro letti.
Nel luogo destinato ai marinai n’erano quindici con tre talami per gli ammogliati e tre triclini per ognuna: la cucina per questi era in verso la poppa. Il solaio di detto piano era poi tutto lavorato di pietre di vari colori intarsiate a bel disegno rappresentante la guerra di Troia.
Ed in ogni cosa per l’artificio era meravigliosa e per la struttura e per la copertura e per le porte e per le finestre. […] tre erano gli alberi del vascello e ciascuno di essi avea due antenne da tirar sassi e far vela, dalle quali ed uncini e palle di piombo scagliavansi contro nemici.
Circondava il navile una palizzata di ferro per tener lontani gli assalitori; e vi avea tutto all’intorno certe mani di ferro, le quali gittate per mezzo di ordigni su le navi nemiche si attaccavano a queste per poterle viemmaggiormente scomporre ed offendere». La nave fu chiamata la “Siracusia”, poi cambiata in “l’Alessandria” perché andò in regalo al re Tolomeo in Egitto.
Sempre nell’ambito dei suoi studi Galeno gli attribuisce l’invenzione del Divulsile uno strumento per raddrizzare le ossa slogate, Cicerone invece parla di una macchina circolare con la quale rappresentava i movimenti del Sole, dei pianeti e della Luna, nonché delle sue fasi e delle eclissi; esso fu posto ad ornamento del quartiere di Acradina ad onore dell’illustre cittadino.
Infine si parla di un planetario in cui aveva rappresentato la posizione delle costellazioni del cielo. Sembra che lo stesso Archimede ritenesse i suoi planetari come la migliore delle sue realizzazioni.
Ecco cosa dice Cicerone: «Colui che col suo genio ha concepito tutti i movimenti dei corpi celesti; colui il quale ha dimostrato che l’anima sua rassomigliava a quella dell’Essere che li ha creato il cielo; Archimede insomma, rappresentando in una sfera il corso della luna, del sole e dei cinque pianeti ha fatto quello che fece il dio di Platone; il quale nel suo Timeo costruisce l’universo, e con una sola rotazione regola il moto degli astri, lento in alcuni celere in altri.
Se la sola potenza di un dio può eseguire questi movimenti nel mondo, Archimede li ha potuto imitare in una sfera perché dotato di genio divino»
Sembra inoltre che egli abbia costruito una meridiana all’interno del tempio di Atena (l’odierna cattedrale di Siracusa) dove stabilì la misura dell’equinozio, altri addirittura gli affibbiano la costruzione di un telescopio a riflessione.
Tra le altre realizzazioni di Archimede si ricorda l’organo idraulico, una macchina in grado di comprimere l’aria e farla uscire a pressione, e lo Stomachion una sorta di gioco geometrico in cui si utilizzano delle figure geometriche piane con la quale si possono rappresentare le sagome di esseri umani, animali ed oggetti.
Ma il destino del regno di Siracusa mutò, dapprima per la prematura morte di Gelone figlio del re Ierone ed erede al trono, poi per la morte dello stesso monarca nel 215 a.C. al quale succede il nipote Ieronimo.
La giovine età e la differente politica adottata dal nuovo reggente porta alla rottura dei trattati di pace con i Romani che dopo poco tempo nel 213 a.C. attaccano Siracusa guidati dal console Marcello.
Ma la città essendo ben fortificata da possenti mura e difesa dall’ingegno di Archimede dette vita dura agli assalti Romani.
Archimede aveva già sperimentato diverse macchine da guerra come la Balista che serviva a lanciare dardi di gran peso; simile a una balestra di grosse dimensioni possedeva un verricello col quale mettere in tensione la macchina e scagliare così delle lance appuntite di un metro circa di lunghezza.
La catapulta che lanciava grosse pietre e altro materiale con la tensione di un braccio in trazione, anche se tuttavia c’è da dire che le catapulte e le baliste esistevano già da tempo e usate da diversi popoli antichi, Archimede forse le aveva al più perfezionate e usate adattandole alle fortificazioni siracusane.
Lo scorpione infatti era già in uso ai Greci e lanciava piccole saette, portato da un singolo soldato era una specie di balestra.
Il corvo poi era una macchina composta da una trave mobile appesa ad un castello con la quale tirava a sé le macchine nemiche.
Polibio afferma che la macchina girava in tutti i sensi avvalorando la tesi che Archimede l’avesse migliorata rispetto gli usi del passato. Le mani di ferro venivano lanciate contro le navi nemiche per afferrare e tirare con argani dall’interno delle mura le varie imbarcazioni che venivano così distrutte.
Si accenna poi ad altre macchine, anche se le conoscenze a tal proposito sono troppo vaghe e incerte tanto da lasciare il solo beneficio dell’immaginazione.
Una cosa certa invece è che diversi macchinari da guerra furono posizionati da Archimede lungo il perimetro delle mura della città, le quali riuscirono brillantemente a contrastare e a procurare gravi danni alle legioni Romane sia per mare che per terra.
Ecco un passo commentato da Serafino Privitera: «E pure cotesti micidiali strumenti, che arrecavano tanta ruina ai nemici, erano un nulla a fronte di quest’altro, che l’eccelso uomo aveva inventato per atterrirli e distruggerli.
Aveva situate sui merli grosse e lunghe antenne in un asse fermo poste in bilico, ed al muoversi agevolissime, alla testa sporgente era un ordigno poderoso di ferro a guisa di mano che con ammirabile meccanismo e forza di catene spalmatasi e stringevasi tenacemente.
Non appena di sotto appressatasi la nemica nave, all’improvviso e con orrendo fracasso vi piombava di sopra arrecandovi gran danno, poi abbrancando quanto vi aveva di assi e di gomene in su la prora, in virtù del maggior peso del punto opposto sollevandosi il gran vette tirava in alto fuori l’onde la galea capovolta, e mentre a rifascio uomini, e remi, ed ancore, ed armi, e quanto vi avea andava a precipizio in mare, essa dimenatasi in aria a sbattere e frangersi nell’ispide rocce, finché ad un tratto lasciata di peso da quelle ferree tanaglie, cadeva giù tonfo e a ruina nelle onde». Inoltre in quell’occasione Archimede mostrò a tutti la forza distruttiva dei famosi specchi ustori: «Se non che a pieno giorno con insolita maraviglia vedeano di mezzo alla flotta vibrarsi come una colonna di vivissimo fuoco, che in un baleno or questo, or quel vascello metteva tutto in fiamme.
Era Archimede, che addensando i raggi del sole nei suoi specchi ustori ne facea strumento di distruzione e di morte contro i nemici della sua patria. […] Stupefatto Marcello a mirar tante e così nuove opere dal sommo matematico inventate, non potea trattenersi dal dire che quello non era guerreggiar con uomini, ma con Briarei dalle cento braccia.
E i soldati ne avean concepito si grande terrore, che al solo nome d’Archimede, al solo vedere spuntar dalle mura una gomena, un’antenna, un segno qualunque, allibiti fuggivano. Laonde disperando di potere oppugnare di viva forza la città, il Console pensò di cangiar l’assedio in blocco per ridurla a fame».
In effetti la vicenda degli specchi ustori ha per molti aspetti dei tratti più che altro leggendari, in quanto ciò che necessitava allo scienziato per l’uso distruttivo degli specchi era una parabola con un fuoco lungo tanto quanto era la distanza delle navi da incendiare, nonché una grande superficie riflettente.
E’ in effetti indubbio che le conoscenze matematico-geometriche permettessero al grande scienziato di costruire degli specchi concavi, ma il problema pratico era quello della notevole superficie riflettente necessaria a concentrare in un sol punto tanta energia. Gli specchi avrebbero dovuto essere molteplici, oppure uno solo di grandi dimensioni, e su questo punto da secoli ci si divide sulla possibilità o meno con i mezzi dell’epoca di realizzare una simile macchina.
Come ben sappiamo la fine dell’assedio alla città di risolse con l’invasione romana, non causata da un cedimento difensivo, ma bensì dal tradimento di alcuni cittadini che favorirono l’ingresso dei soldati in piena notte, e quindi il disastroso sacco che ne conseguì.
La città messa a ferro e fuoco dai soldati ebbe così il più grave dei suoi lutti, ossia quello della morte del grande scienziato; un soldato entrato all’interno dello studio di Archimede esortò lo stesso a voltarsi, ma egli assorto in chissà quale riflessione scientifica fu ucciso senza remora.
Il console Marcello alla notizia ne fu rattristato dato che aveva dato ordine di non ucciderlo.
Fu poi egli stesso e proporre solenni funerali e a far costruire una lapide all’esterno delle mura cittadine (si dice in zona Acradina) con la rappresentazione di una sfera inscritta in un cilindro, proprio come egli aveva desiderato.
Era l’anno 212 a.C. dove nel buio dei giorni tristi dell’invasione romana a Siracusa, fu come persa la memoria del grande cittadino, poi ricordata negli scritti di Cicerone il quale venendo in città riscoprì la tomba dello scienziato in stato di abbandono.

lunedì 24 settembre 2012

I condannati

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Non c'è funzione in chiesa
il giorno che impiccano un uomo:
il Cappellano è troppo sconvolto nel cuore
o troppo pallido in faccia,
o scritto negli occhi egli porta
segreti che nessuno ha da vedere.
Ci tennero rinchiusi sin quasi a mezzogiorno,
sonarono poi la campana,
e i Carcerieri dalle chiavi tintinnanti
vennero ad aprire ogni cella in ascolto,
e giù per la scala di ferro scendemmo
ciascuno dal suo Inferno solitario.
Uscimmo nella dolce aria di Dio
ma non al modo usato,
poi che il viso dell'uno era bianco di paura
e il viso dell'atro era grigio,
e non vidi mai uomini tristi guardare
con tanta ansia la luce.
Mai vidi uomini tristi guardare
con tanta ansia negli occhi
l'esigua tenda azzurra
che noi carcerati chiamiamo cielo,
e ogni nube svagata che passava
libera e beata innanzi a noi.

Oscar Wilde

sabato 22 settembre 2012

Floyd

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I maiali, come gli esseri umani, sognano e possono distinguere i colori, e sono animali socievoli. Nelle notti d'estate si stringono tra loro e amano dormire naso contro naso.
Floyd, è un maialino di 1 anno, trasferito all'Animal Place da un altro rifugio per animali.
Floyd non riusciva ad ambientarsi e cadde in quella che aveva tutta l'aria di una grave depressione.
Sembrava che non desiderasse più vivere;rifiutava il cibo, si stava lasciando morire.
Il custode non riusciva a capire come mai. Alla fine, Diane Miller, che si era occupata di Floyd quando viveva al Farm Sanctuary, andò a vedere qual era il problema.
Non appena l'animale la vide, il suo comportamento cambiò. L'annusò con quella che pareva un'espressione di sollievo, sembrò sopraffatto dall'emozione; strillò di piacere e non smetteva di muoversi, lo stesso maiale che prima si muoveva a fatica corse verso il furgone e balzò nel retro,ringhiando verso chi si avvicinava, pronto a tornare a casa.
Non chiedeva altro che questo: tornare a casa dagli altri maiali che conosceva e amava.
Non appena fece ritorno al Farm Sanctuary, la sua depressione sparì. Aveva avuto nostalgia di casa.

venerdì 21 settembre 2012

Perplessità...

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Se la bibbia prova l'esistenza di Dio,
allora i fumetti provano l'esistenza dell'Uomo ragno ?

martedì 18 settembre 2012

Nostradamus e Ofiuco

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Il sistema dell'astrologia classica si sviluppa secondo lo zodiaco tropicale, fascia che si estende di alcuni gradi sopra e sotto l'Eclittica, vale a dire, la circonferenza descritta sulla sfera celeste dal movimento apparente del Sole intorno alla terra.
Lo zodiaco viene diviso arbitrariamente in 12 parti uguali: questi sono i segni zodiacali.
I loro nomi, ben noti, sono: Ariete, Toro, Gemelli, Cancro, Leone, Vergine, Bilancia, Scorpione, Sagittario, Capricorno, Acquario, Pesci.
I segni dello zodiaco sono quindi una divisione arbitraria di questa cintura zodiacale, attraverso le quali passano i pianeti.
Le costellazioni che attraversano lo zodiaco sono invece 13, perché alle 12 che danno il nome ai segni si deve aggiungere quella di Ofiuco, che viene attraversata come le altre da Sole, Luna e pianeti, e si trova fra Scorpione e Sagittario.
L'oroscopo quindi non riflette la vera posizione planetaria celeste in quanto si adegua alle stagioni: oggi, segni e costellazioni non hanno più una loro coincidenza, a causa della precessione degli equinozi.
Esiste perciò una netta differenza fra il momento in cui il Sole entra in un segno e il momento in cui entra nella costellazione che porta lo stesso nome.
Ofiuco è quindi una costellazione che attraversa lo zodiaco e non un segno zodicale.
Adesso che abbiamo scoperto qualcosa di più sull'Ofiuco e perché non è un segno Zodiacale possiamo sapere nella Mitologia cosa rappresentava questo segno...
Ofiuco rappresenta un uomo con un enorme serpente avvolto attorno alla vita.
Egli tiene la testa del serpente nella mano sinistra e la coda nella mano destra.
Il serpente è rappresentato dalla costellazione del Serpente.
I Greci lo identificarono con Asclepio, il dio della medicina.
Asclepio era figlio di Apollo e di Coronis (sebbene qualcuno sostenga che sua madre fosse Arsinoe).
La leggenda narra che Coronis tradì Apollo con un mortale, Ischys, mentre era incinta di un figlio di Apollo.
Un corvo, uccello che fino a quel momento era stato candido, portò al dio la brutta notizia ma invece della ricompensa che si aspettava fu maledetto dal dio che lo fece diventare nero.
In un impeto di gelosia Apollo colpì Coronis con una freccia.
Piuttosto che vedere il suo bambino morire con lei, il dio strappò il feto dal grembo della madre mentre le fiamme della pira funeraria l'avvolgevano, e lo affidò a Chirone, il centauro saggio (rappresentato nel cielo dalla costellazione del Centauro).
Chirone allevò Asclepio come un figlio e gli insegnò le arti della guarigione e della caccia.
Asclepio divenne talmente abile nella medicina che non solo riuscì a salvare vite umane, ma anche a resuscitare i morti.
Una volta, a Creta, Glauco, il giovane figlio del re Minosse, mentre stava giocando cadde dentro un barattolo di miele e vi annegò.
Asclepio era intento a osservare il corpo di Glauco, quando un serpente si avvicinò. Lui prontamente l'uccise con il suo bastone; allora si fece avanti un altro serpente con in bocca un'erba che depose sul corpo di quello morto, che magicamente ritornò in vita.
Asclepio prese la stessa erba e la pose sul corpo di Glauco, e l'effetto magico si ripeté.
A causa di quest'incidente, dice Igino, Ofiuco è rappresentato in cielo con in mano un serpente, che è divenuto il simbolo del recupero della salute per la caratteristica che i serpenti hanno di cambiare pelle ogni anno, come se ogni volta rinascessero.
Altri, però, dicono che Asclepio ricevette dalla dea Atena il sangue di Medusa la Gorgone.
Il sangue che sgorgava dalle vene del suo fianco sinistro era velenoso, ma quello del fianco destro aveva il potere di fare risorgere i morti.
Uno degli uomini che si suppone Asclepio abbia resuscitati fu Ippolito, figlio di Teseo, che morì precipitando dal suo carro (qualcuno lo identifica con la costellazione dell'Auriga).
Mentre prendeva le erbe guaritrici, Asclepio toccò per tre volte il torace del ragazzo, pronunciando parole propiziatrici ed Ippolito sollevò la testa.
Ade, dio del Mondo dell'Oltretomba, si rese presto conto che il flusso di anime morte nel suo regno si sarebbe drasticamente ridotto se questa tecnica fosse diventata di conoscenza comune.
Protestò presso Zeus, il dio suo fratello, e quello colpì Asclepio con la folgore. Apollo si sentì oltraggiato per il trattamento severo riservato a suo figlio e si vendicò uccidendo i tre Ciclopi che forgiavano le folgori di Zeus.
Per placare Apollo, Zeus rese Asclepio immortale (date le circostanze non era certo possibile riportarlo in vita) e lo pose fra le stelle come costellazione di Ofiuco.
La stella più brillante di Ofiuco è Alfa di Ofiuco di II grandezza e si chiama Rasalhague che in arabo vuol dire «la testa di colui che raccoglie il serpente».
Beta di Ofiuco è Cebalrai, dall'arabo «il cane del pastore»; in questa zona di cielo gli Arabi vedevano un pastore (la stella Alfa di Ofiuco) con il suo cane e delle pecore.
Delta ed Epsilon di Ofiuco si chiamano Yed Prior e Yed Posterior, due nomi composti, formati dall'arabo al-yad, che significa «la mano», uniti alle parole latine Prior e Posterior, aggiunte per dare il significato di parte «anteriore» e «posteriore» della mano.
La punta della freccia del sagittario e la coda dello scorpione formano i due punti di una retta, che se trasformata nel diametro di un cerchio finirà con il racchiudere esattamente il centro della nostra galassia.
Stupefacente è che Nostradamus conosceva questo punto, come i Maya prima di lui, ma a differenza dei Maya sapeva di un 13esimo segno zodiacale, il quale teneva in mano un serpente, simbolo del male, corrispondente al segno di Ofiuco.
Tracciando 4 rette, due dal centro della galassia, e 2 dal centro della terra, si ottengono gli 8 raggi, simbolo del tempo, che sta per finire.
Secondo alcuni studiosi di Nostradamus, quando i due punti, quello del centro della galassia e quello della terra combaceranno sarà l’inizio di una rivoluzione, come questa sarà dipenderà da noi.

giovedì 13 settembre 2012

Il mio Credo blasfemo.

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Credo in un solo Dio,la Natura, Madre onnipotente,generatrice del cielo e della terra, di tutte le cose visibili e invisibili.
Credo in un solo Signore, l'Uomo, plurigenito Figlio della Natura, nato dalla Madre alla fine di tutti i secoli: natura da Natura, materia da Materia, natura vera da Natura vera, generato, non creato, della stessa sostanza della Madre.
Credo nello spirito, che è Signore e dà coscienza della vita, e procede dalla Madre e dal Figlio, e con la Madre e il Figlio è adorato e glorificato, e ha parlato per mezzo dei profeti dell'Intelletto.
Aspetto la dissoluzione della morte, ma non un'altra vita in un mondo che non verrà.

P.O.

lunedì 10 settembre 2012

Il coccodrillo e il bambino

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I filosofi greci amavano raccontare la storia di un coccodrillo che aveva portato via un bambino alla sua mamma.
Coccodrillo : Mangerò il tuo bambino ?
Rispondimi esattamente e te lo restituirò illeso.
Madre: Oh ! Oh! Stai per mangiare il mio bambino!

Coccodrillo: Mmmmm...Che devo fare ?
Se restituisco il bambino vuol dire che hai detto il falso e quindi avrei dovuto mangiarlo...
Va bene, non te lo restituirò.
Madre: Ma devi farlo. Se mangi il mio bambino,vuol dire che io ho detto il vero e quindi devi restituirmelo.

Il povero coccodrillo rimase talmente allibito che lasciò andare il bambino.
La madre lo afferrò e corse via.
Coccodrillo: Caspita!
Se solo avesse detto che stavo per restituirglielo,avrei fatto un pasto succolento.

domenica 2 settembre 2012

La tigre inattesa

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Principessa:Voi siete il RE,padre.Posso sposare Romeo ?

Re: Mia cara,potrai se Romeo ucciderà la tigre che sta dietro una di queste cinque porte.Egli deve aprire le porte in ordine, a partire dalla prima,e non saprà in quale stanza si trova la tigre finchè non aprirà la porta giusta.
Sarà quindi una tigre INATTESA.

Vedendo le porte, Romeo si disse.
Romeo: Se apro quattro stanze, saprò che la tigre si trova nella stanza quinta.
Ma il Re ha detto che non lo avrei saputo in anticipo,quindi la tigre NON PUO' essere nella stanza quinta.

Romeo: La cinque è escusa, quindi la tigre deve essere in una delle altre quattro stanze. Cosa succede se apro tre porte vuote ?
La tigre dovrà per forza essere nella stanza quattro ; ma allora non sarà INATTESA, quindi anche la quattro è esclusa.

Con lo stesso ragionamento, Romeo dimostrò che la tigre non poteva essere nella stanza tre o nella due o nella uno.
Romeo era tutto contento.
Romeo: Non c'è nessuna tigre dietro una di queste porte. Se ci fosse non sarebbe INATTESA come il Re ha promesso; e il Re mantiene SEMPRE la sua parola.

Avendo dimostrato che non c'era alcuna tigre, Romeo cominciò ad aprire le porte con spavalderia.Con sua grande sorpresa, la tigre saltò fuori dalla stanza seconda;era del tutto INATTESA, quindi il re aveva mantenuto la sua parola

Griffonia simplicifolia

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La Griffonia simplicifolia è una pianta tropicale della tradizione africana, “scoperta” solo in anni recenti dall'erboristeria e dalla fitoterapia occidentale.

I semi di questa pianta contengono notevoli quantità di 5-HTP, precursore diretto della serotonina.
La serotonina è uno dei principali neurotrasmettitori del sistema nervoso ed è coinvolta nella regolazione del tono dell'umore, del senso di fame, del sonno e di altre importanti funzioni.
Il corpo sintetizza serotonina dal triptofano, un amminoacido essenziale (ovvero un amminoacido che l'organismo non è in grado di produrre autonomamente e che deve essere assunto tramite il cibo).
Il 5-HTP è un metabolita intermedio di questa sintesi, che si forma una volta che il triptofano è penetrato nella cellula nervosa.

Mediante l'assunzione di griffonia è quindi possibile apportare il precursore 5-HTP dall'esterno e incrementare i livelli di serotonina nell'organismo.

Il risultato dell'assunzione di 5-HTP è un rapido effetto di riequilibrio di depressioni lievi e moderate, di facilitazione del sonno e di contenimento dell'ansia e della fame nervosa.