lunedì 23 luglio 2012

Vento Divino

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La storia leggendaria che ci ha tramandato la tradizione, e che per i Giapponesi è stata Storia fino alla fine della Seconda guerra mondiale, è questa: il mongolo Kublai Khan, temibile nipote del terribile Gengis Khan, già padrone di Cina, Indocina, Corea e Tibet, Kubilay Khanfondatore della dinastia che dominò la Cina con il nome di Yuan, vuole annettersi anche il Giappone.
Prova una prima volta nel 1274 ma è respinto da una tempesta, furioso dà ai suoi comandanti un anno di tempo per riprovarci. Ora, la distanza tra i porti del Khan mongolo e il Giappone è di circa 500 miglia di mare aperto, non esiste una flotta militare in grado di trasportare i 140 mila guerrieri e Arakhan, comandante in capo di Kublai Khan, inizia a costruire navi a tambur battente.
Per quante migliaia di operai siano stati impiegati e per quanto rapidi siano stati, bisogna arrivare al 1281 prima che siano approntate le circa 4.400 navi in grado di trasportare le truppe e che un giorno apparvero al largo delle coste giapponesi.
Gli uomini e i cavalli sbarcano, iniziano le prime battaglie con i samurai e, per quanto i mongoli si ritenessero invincibili non fosse che per la superiorità numerica, sono costretti a ritirarsi.
Arakhan ha due alternative: ritirarsi o dare nuovamente battaglia, opta per quest’ultima forte appunto del numero dei suoi armati e dell’appoggio di dio, d’altro canto i samurai sono animati dalla necessità di difendere la loro patria e non confidano certo meno nell’intervento divino che si palesa con una nuova tempesta sbarazzandoli definitivamente dal pericolo mongolo.
La tempesta che affondò le navi fu chiamata Kamikaze, vento divino, e per perpetrare il ricordo di quel lontano intervento miracoloso nel corso dell’ultimo conflitto mondiale presero questo nome reparti speciali d’attacco giapponesi, costituiti da aerei carichi di esplosivo con i quali i piloti si lanciavano contro le navi americane, aprendo la strada ad una tecnica ancora tristemente in voga ai nostri giorni.
Questo è quello che la storia-leggenda ci ha proposto fino a qualche tempo fa: l’intervento divino aveva salvato il Giappone.
Tutto era avvolto in un alone misterioso, non c’erano indizi per sapere con certezza dove, nelle 2000 miglia marine su cui si estendono le isole giapponesi, fosse affondata la flotta dell’invasore, finché una ventina di anni or sono un raccoglitore di molluschi dell’isola di Takashima si ritrova tra le mani un oggetto di metallo coperto di strani caratteri.
Gli studiosi accertano che si tratta di un sigillo di bronzo con iscrizioni in lingua mongola da un lato e ideogrammi cinesi dall’altro, datato 1276 e appartenuto ad un generale al comando di mille uomini.
È il primo passo per scoprire in quale punto è affondata la flotta di Kublai Kuhan e scandagliando il mare nei dintorni, il compito è affidato all’archeologo marino Kenzo Hayashida coadiuvato da un gruppo internazionale di sommozzatori, ricercatori e archeologi, ecco emergere altri reperti: ancore di legno, un elmetto mongolo, teste di frecce, monete e migliaia di frammenti di fasciame.
È su questi che si concentrano gli studi degli archeologi, intervengono studiosi di storia mongola e qui incominciano a squarciarsi le tenebre. Il professor Morris Rossabi sostiene che le navi cinesi del tempo erano straordinariamente moderne, addirittura in grado di poter ovviare ad una falla essendo gli scafi divisi in compartimenti stagni.
Sarebbero stati invincibili se, ecco la scoperta, gli scafi trovati, assemblati dove è stato possibile, fossero stati all’altezza della fama, invece si rivelano costruiti alla bell’e meglio.
Non solo gli alloggiamenti dell’albero maestro sono mal fatti ma, udite udite, avevano il fondo piatto, non c’era chiglia, erano imbarcazioni adatte ai fiumi.
Il fatto che tutte le ancore fossero verso sud e le cime tese verso la costa avvalora l’ipotesi che una forza immane abbia scagliato le navi verso la spiaggia, e fin qui il vento divino ha fatto il suo dovere, ma non va dimenticato che l’invasione è avvenuta tra agosto e ottobre, che in Giappone è il periodo culminante dei monsoni, se ci aggiungiamo che le navi erano raffazzonate arriviamo alla conclusione che il cielo ha avuto un aiuto nella presunzione di Kublai Khan e nel terrore dei suoi comandanti che per restare nei tempi da lui indicati hanno messo insieme una flotta di poche navi di qualità, sulle quali sono tornati in patria, e un assembramento eterogeneo di tutto ciò che potesse galleggiare e che è costato la vita, secondo antichi documenti, a 70 mila uomini, il maggior numero di vittime nella storia dei disastri marini.