lunedì 9 novembre 2009

Parlamento chiuso, legifera Papi

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La Camera dei Deputati rimarrà chiusa per l'intera settimana, così com'è stato comunicato a tutti deputati dall'ufficio di presidenza.
Sembra uno scherzo, o un messaggio surreale.
È invece il dato incontrovertibile che segna quanto la nostra democrazia parlamentare sia in affanno, messa sotto scacco da una volontà politica ormai chiara più del sole. Già da tempo, sui giornali, si era infatti registrato il lento congelamento del Parlamento, lo svuotamento delle funzioni di Palazzo Madama e di Montecitorio: ma lungi dall'essere il frutto di un destino cinico e baro, o di una qualche calamità naturale, quanto accade in questi giorni è il prodotto di un disegno scientifico.

Scopo di questo disegno è concentrare tutti poteri nelle mani dell'Esecutivo, spostando il baricentro del potere dal Parlamento, così come descritto nella nostra carta costituzionale, a Palazzo Chigi, sede del governo. È questo un disegno che vede come suo inizio la famosa legge porcata di Calderoli, con la quale si è cercato non solo di svuotare di qualsiasi significato il voto elettorale, espressione genuina della sovranità popolare, ma anche, attraverso la diretta indicazione del Presidente del Consiglio sulla scheda, di modificare la costituzione materiale di questo paese in senso presidenzialista. Quanto accade in questi giorni è solo l'ennesima conferma della pericolosissima direzione, evidentemente anticostituzionale, che intende seguire l'attuale esecutivo.

Così accade che mentre il governo vede nella quotidianità della vita politica aumentare drasticamente i propri poteri, attraverso un’interpretazione espansiva delle norme che ne regolano la disciplina, la Camera chiude i battenti per dieci giorni. I numeri sono eloquenti: i deputati lavorano in media 27 ore alla settimana e, su 102 leggi approvate fino ad ora dall'inizio della legislatura, ben 87 sono di iniziativa governativa. Il che equivale a dire che il 90% delle leggi provengono dal governo. Fa impressione, inoltre, sapere che le 15 leggi approvate dal Parlamento sono il frutto di una sintesi che ha come base ben 4200 testi presentati dai deputati.

A Palazzo Madama la situazione è, se possibile, anche peggiore: dai numeri risulta infatti che un senatore lavora in media solo nove ore la settimana. Questa è la situazione ed appare evidente a tutti che un Parlamento ridotto in questo stato non serve a nessuno, essendo già di fatto nient'altro che un semplice luogo di ratifica delle proposte del governo.

La notizia dunque è questa: Montecitorio non lavora perché le scelte del governo gli impediscono di lavorare. A rendere eclatante quanto accaduto è il fatto che a denunciare la gravità della situazione sia stato lo stesso Presidente della Camera, Gianfranco Fini, autorevole membro della maggioranza. È stato infatti il cofondatore del PDL a confermare che la conferenza dei capigruppo ricomincerà a lavorare il 9 novembre con la riforma della legge di bilancio. “Mancanza di copertura finanziaria”. Questa una delle ragioni per le quali non è possibile calendarizzare in aula progetti di legge d’iniziativa parlamentare. Le commissioni sono ferme, ma non per pigrizia - precisa Fini - ma perché mancano i soldi. Quello stesso Gianfranco Fini, che all'inizio della legislatura aveva promesso che l'Assemblea avrebbe lavorato cinque giorni su sette invece dei tre della precedente, ha dato la colpa di questo stop all'esecutivo.

Teatro di questo conflitto è stato l'organo di autogoverno del Parlamento, la conferenza dei capigruppo. "Una delle ragioni per le quali non è possibile calendarizzare in aula progetti di legge d’iniziativa parlamentare - ha detto l'ex presidente di Alleanza Nazionale - deriva dal fatto che questi non possono essere licenziati dalle commissioni per mancanza di copertura finanziaria". Questo perché ai sensi dell'ultimo comma dell'articolo 81 della Costituzione, "ogni altra legge che importi nuove o maggiori spese deve indicare i mezzi per farvi fronte". Tuttavia, né la Costituzione, né altre fonti di diritto positivo, avevano in passato dettato precise norme in ordine agli strumenti e alle modalità di attuazione dell'anzidetto precetto costituzionale, che era stato di sovente disatteso, come rilevò la sentenza del 10 gennaio 1966, n. 1 della Corte Costituzionale.

La materia, invece, risulta ora espressamente disciplinata sotto il titolo di "copertura finanziaria delle leggi" dall'articolo 11 ter della legge 5 agosto 1978, n. 468. La legge prevede che la copertura avvenga esclusivamente a mezzo di: 1. utilizzo degli accantonamenti dei fondi speciali; 2. riduzione di precedenti autorizzazioni di spesa; 3. modificazioni legislative comportanti nuove o maggiori entrate. Il principio appare dunque chiaro: se non ci sono i soldi è meglio evitare di perder tempo per discutere di un intervento legislativo che comunque non potrebbe produrre alcun effetto.

Parole, quelle di Fini, indirizzate al ministro Elio Vito, responsabile dei rapporti con il Parlamento, e rimaste, a detta dei testimoni, senza nessuna risposta. Così accade nella sostanza che l'intera assemblea rimarrà ferma in un momento in cui certamente il lavoro non manca. Dopo la riforma della legge finanziaria, infatti, dal 9 novembre l'assemblea di Montecitorio discuterà la mozione Realacci sulla nave dei veleni al largo della Calabria e il disegno di legge sull'istituzione del ministero della Salute, mentre il provvedimento sulla cittadinanza gli immigrati sarà rinviato a dicembre.
Il punto però che occorre sottolineare è un altro. L'idea, cioè, di poter modificare l'ordine costituzionale del Paese senza rispettare le norme previste dalla stessa Costituzione all'articolo 138.

Accade dunque che il governo, in questo aiutato dallo strapotere mediatico del Biscione, cerchi di persuadere la pubblica opinione che l'Italia è un paese che ha bisogno di essere ristrutturato e rivisto nella sua interezza e che, per lungo tempo, è vissuto al di sopra delle proprie possibilità. La soluzione ai problemi è dunque nel rigore economico, che si traduce in un immobilismo dell'esecutivo nella gestione della spesa pubblica e nel taglio di ogni costo superfluo, che si traduce nella riforma di qualsiasi istituto che sia di ostacolo all'iniziativa del governo, e dunque alla volontà di Silvio Berlusconi.

È infatti questa la chiave di lettura attraverso la quale leggere i recenti avvenimenti. È in atto una vera e propria guerra istituzionale da quando il Presidente del Consiglio, sentendo come un oltraggio la bocciatura da parte della Corte Costituzionale del lodo Alfano, ha deciso di lanciare una vera e propria controffensiva nei confronti di tutti poteri ancora autonomi, e dunque pericolosi perché immuni dalla sua influenza: la magistratura prima, la Corte Costituzionale e il Presidente della Repubblica poi, il Parlamento adesso. Ben si comprende quindi il perché il presidente del Senato, Schifani, uomo di fiducia del premier, abbia deciso di non seguire l'iniziativa del suo collega Fini, come se il problema dell'autorevolezza del Parlamento non lo riguardasse. Quando si va in guerra, infatti, servono soldati non filosofi, bisogna quadrare le posizioni e serrare i ranghi: la fedeltà al capo non si mette in discussione neanche se ad essere sotto attacco è la credibilità della istituzione che si rappresenta. La strategia è chiara, i giochi sono fatti. In palio c'è il regime.

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