giovedì 4 ottobre 2012
La meta di Bobby
Non c'era più nulla da fare. Bobby, ormai in agonia, stava morendo, a soli 24 anni, per complicazioni polmonari in seguito a un'operazione di appendicite.
Fu allora che il poveretto, trovando chissà dove la forza, ebbe un piccolo sussulto. Si intuì un vago movimento delle labbra, forse il tentativo di dire qualcosa. Qualcuno, si avvicinò al letto.
"Vuoi dire qualcosa, figliolo?". "Sì", la risposta, pronunciata con le ultime molecole di ossigeno rimaste nei polmoni: "Io quella meta l'avevo segnata". Subito dopo, Bobby morì.
I presenti rimasero attoniti, l'animo diviso tra il dolore per quella prematura morte e la curiosità di quell'ultima frase.
Subito si pensò al delirio dettato dall'agonia. Ma non era così, e il mistero di quelle parole venne in fretta svelato.
Perché in Nuova Zelanda, nel 1908, nessuno ignorava una partita di poco più di due anni prima. E nessun appassionato di rugby poteva dimenticare quanto accaduto il 16 dicembre 1905.
Era, quella, la data dell'ultimo incontro degli All Blacks nella tournée in Gran Bretagna.
Gli All Blacks sono la Nazionale della Nuova Zelanda: la locuzione "Tutti Neri", per il colore delle maglie della squadra, appare per la prima volta il 12 ottobre 1905 sulle colonne del Daily Mail. "Sessantatré punti a zero a una delle più forti selezioni del Nord, l'Hartlepool club: non ci sono parole per illustrare la bravura degli All Blacks", scrive John Buttery. ignaro in quel momento di consegnare la definizione alla storia.
In realtà pare che il termine "All Blacks" fosse già stati utilizzati in altre due circostanze, prima dal The Express and Echo, un giornale di provincia, quindi dal neozelandese Northern Daily Mail. Ma ci sono versioni contrastanti persino sul titolo del Daily Mail di quel 12 ottobre. Buttery, infatti, aveva forse parlato di "All Backs", tutti indietro, considerando in pratica i neozelandesi una formazione così veloce da essere composta di soli trequarti.
Ma una volta arrivato il pezzo in tipografia qualcuno pensò a un errore di battitura. Quel "Backs" venne così corretto in "Blacks", neri, visto che molti in Inghilterra pensavano ai neozelandesi come a una popolazione di colore.
"All Blacks", dunque, e l'ignaro e sconosciuto tipografo dava un nome a una formazione già epica.
La squadra arrivata dagli antipodi, era infatti nota sino a quel momento come "Colonials", termine che nasceva naturale nel periodo di massimo splendore dell'Impero britannico, di cui la Nuova Zelanda faceva parte.
In quel Tour gli All Blacks danno spettacolo, attirando folle immense alle partite e seppellendo di punti gli avversari: nell'incontro con l'Inghilterra, vinto per 15-0, allo stadio del Crystal Palace ci sono 45.000 spettatori paganti e, secondo la stima fatta dagli organizzatori, almeno altri 30.000 che in qualche modo riescono a sfuggire al passaggio al botteghino pur di ammirare i favolosi "Tutti Neri".
Poco male per il cassiere, che al termine della giornata registrerà un incasso di 1039 sterline, una somma folle all'epoca.
Si arriva, dunque, al 16 dicembre, ultima delle undici sfide previste in appena 31 giorni.
Gli All Blacks sono attesi in Galles, dove il rugby è una religione. Alla stazione di Cardiff la polizia deve trattenere la folla che vuole vedere da vicino i giocatori che hanno distrutto inglesi, scozzesi e irlandesi.
In Galles, infatti, già allora giocano tutti, specie i rudi minatori, che appena risaliti dai cunicoli si ripuliscono dal carbone e vanno a esibirsi con la palla ovale.
E quell'anno la Nazionale aveva conquistato la "Triple Crown", la tripla corona, avendo battuto Irlanda, Scozia e, quel che più conta per i gallesi, l'Inghilterra.
In una giornata grigia e fredda 47.000 spettatori si accalcano così all'Arms Park di Cardiff.
Uno stadio, si dice, che in Galles non si trova: perché è il Galles a essere dentro l'impianto e non viceversa.
Vogliono vedere la gara in cui si sfidano quelle che, potenzialmente, sono le migliori nazionali al mondo.
Una partita che si annuncia come la più difficile della tournée degli All Blacks: la stanchezza per i molti incontri sostenuti, gli infortuni subiti (sono assenti tre dei migliori, Smith, Stead e Cunningham) e le qualità del Galles rendono durissimo il compito dei neozelandesi.
Proprio per questo c'è nervosismo già prima del calcio d'inizio.
Le controversie cominciano dalla designazione dell'arbitro: i neozelandesi rifiutano di sceglierne uno nel quartetto proposto dai gallesi.
E altrettanto fanno i padroni di casa con i quattro nomi suggeriti dagli ospiti.
Alla fine, la scelta cade su uno scozzese, John Dallas.
Quest'ultimo è stato un eccellente giocatore con il club dei Watsonians e con la sua Nazionale: costretto a interrompere l'attività agonistica in seguito a una malattia, decide di proseguire l'avventura nel rugby come direttore di gara.
Ma nel 1905 Dallas arbitra da sole due stagioni e con appena 27 anni è addirittura più giovane dei capitani delle squadre.
Si teme, insomma, non abbia sufficiente esperienza per dirigere uno scontro di quel livello.
Ad Arms Park è subito battaglia, ma gli eserciti non sono in equilibrio. Da una parte gli All Blacks, ormai stremati dalle tante partite disputate. Dall'altra, in pratica, tutto il Galles: quindici uomini in campo, 47.000 in tribuna. Nel freddo di Arms Park, sul fango del terreno, le difese sembrano inizialmente avere la meglio sugli attacchi.
Poi, grazie alla solidità dei propri avanti e alle qualità dei due mediani, quello di mischia Dickie Owen e l'apertura Percy Bush, i gallesi sembrano dilagare, coronando al 25' la loro superiorità.
Un'azione velocissima: da Owen a Cliff Pritchard, quindi a Rees Gabe. è quest'ultimo a servire Teddy Morgan, ala dei London Welsh, un piccoletto con la faccia da adolescente.
Evitato il placcaggio di McGregor, Morgan va in meta.
Sotto di tre punti (tanto, infatti, valeva allora la meta), i neozelandesi si scatenano. Fiaccati dalla lunghissima tournée, buttano in campo più la rabbia per essersi ritrovati sotto nel punteggio che la lucidità. Ma la furia degli "All Blacks" basta a cambiare il corso della partita.
Adesso il campo è sommerso da una crescente marea nera. Con orgoglio, i gallesi si assiepano a difesa della propria linea di meta: Land Of My Fathers, la terra dei miei padri, è il titolo dell'inno nazionale.
E quella linea bianca adesso è davvero il confine di quella terra, da difendere come in trincea. Ma non c'è niente da fare. Dopo una rimessa laterale, la palla arriva a Billy Wallace.
Quest'ultimo è stato il miglior realizzatore nella tournée degli All Blacks: merito delle sue mete, ma soprattutto della sua precisione nella trasformazione dei calci. Wallace, ricevuta palla, inizia a correre. Vede davanti a sé la linea di meta, ma anche l'arrivo di un avversario, Winfield. La strada è sbarrata: Wallace, tutto spostato su un lato del campo, non può ricevere sostegno alla sua sinistra.
Guarda allora a destra. Lì, nel frastuono di 47.000 voci che sembrano poter disintegrare l'Arms Park, ne distingue una: è quella di Bobby Deans.
Il ventiduenne talento degli All Blacks sta tagliando verso il centro, con una velocità pari solo a un'altra cosa: il volume della sua voce.
Perché Bobby urla talmente forte da farsi sentire da Wallace: "Billy, Billy…", è il grido di Deans, che si sta sbracciando per chiedere il pallone.
Wallace non solo ha identificato la voce, ma ne distingue anche il proprietario. Adesso vede quell'unica maglia nera in mezzo a quelle rosse del Galles e lì indirizza il pallone, che Deans è pronto a far suo. La linea di meta è vicina: il ventiduenne centro del Canterbury si infila in mezzo alla marea rossa. E l'unica maglia di quel colore in grado di seguirlo appartiene a Morgan.
Proprio lui, l'autore della meta che tre minuti prima ha portato in vantaggio il Galles. è un duello di velocità, ma anche di tempi: e Morgan arriva a placcare Deans proprio quando il neozelandese schiaccia la palla in meta.
O, almeno, questo è quello che credono Deans e i neozelandesi. Perché l'arbitro, che si ripara dal freddo con una palandrana e indossa scarpe utili contro il fango ma che impediscono una corsa veloce, è piuttosto distante dall'azione: e quando arriva sul posto, non concede la meta. Eppure Deans aveva urlato "toccato", come si usava allora tra i giocatori dopo la segnatura. Da poco il rugby aveva infatti introdotto la figura dell'arbitro, giudicata all'inizio inutile in uno sport praticato da galantuomini: a regolare le partite provvedevano gli stessi capitani delle squadre. Prevaleva insomma lo spirito sportivo, e proprio l'assenza del direttore di gara imponeva di segnalare a voce la meta da parte dell'autore.
Un'abitudine che i giocatori di inizio Novecento avevano conservato, nonostante l'introduzione della figura dell'arbitro.
Quella volta la segnalazione di Deans non bastò: nel placcaggio il centro neozelandese era stato probabilmente trascinato indietro, e prima dell'arrivo dell'arbitro Dallas il pallone spostato dal punto in cui era stato schiacciato al terreno.
Sono le 15.28 quando il direttore di gara decide di non concedere la meta. Un'ora che, insieme alla data del 16 dicembre 1905, è destinata a restare nella storia del rugby.
Nel resto della partita gli All Blacks non furono infatti in grado di segnare: battuti per 3-0, subirono così l'unica sconfitta di una tournée che li aveva sin lì visti solo vincitori.
Ma era evidente che se quello era il punteggio della partita, la storia del match non si era certo chiusa con il fischio finale di Dallas.
E visto che le regole non scritte del rugby impongono ai giocatori di non contestare sul campo le decisioni arbitrali, Deans provvide allora a far conoscere la propria versione dei fatti attraverso questa dichiarazione al Daily Mail: "Ho schiacciato la palla 15 centimetri oltre la linea, e alcuni giocatori gallesi hanno ammesso la meta. I miei compagni di squadra Hunter e Glasgow possono confermare che sono stato tirato indietro prima dell'arrivo dell'arbitro". Non è una frase da poco.
Anzitutto per l'assoluto fair-play che esiste nel rugby, e per la fama di cui gode Deans.
Cresciuto in una famiglia colta e benestante, Bobby è stimatissimo dai compagni, cui spesso offre regali o soldi per ogni necessità. è inoltre assai devoto, regolarmente presente in chiesa per la messa: impossibile, insomma, che possa mentire.
Eppure di quella meta si continua a parlare. Non solo nel giorno della partita, quando dall'ufficio telegrafico di Cardiff vengono spediti qualcosa come 35.000 messaggi, contro una media giornaliera di 800. Ma anche in seguito: l'arbitro Dallas, subito dopo la gara, ha preso il treno per Edimburgo, e solo con qualche giorno di ritardo apprende delle contestazioni neozelandesi sulla meta non concessa a Deans. Ma il direttore di gara resta convinto della propria decisione, e cioè di avere visto Deans mettere la palla a terra 15-30 centimetri prima della linea di meta. "In quel momento non poteva né passare né giocare il pallone. E quando arrivai sotto i pali del Galles fischiai, chiaro e forte". Una testimonianza conservata nel museo del rugby a Cardiff, insieme al fischietto di quell'incontro. Ma la versione dell'arbitro scozzese non convince, anche perché Dallas, la cui corsa è resa complicata dal cappotto che indossa, arriva in zona diversi secondi dopo il placcaggio fatto da Morgan a Deans. Né aiuta l'analisi degli articoli scritti dagli inviati all'incontro, unitamente alle testimonianze dei presenti. Il lavoro produce infatti solo un risultato: quell'episodio continua ad avere storie discordanti. Non c'è certezza neppure sull'autore dell'ultimo placcaggio: qualcuno sostiene che ad effettuarlo non fu Morgan, bensì Gabe. Ma se il mondo del rugby è incerto e diviso, Deans invece non ha dubbi. "Io quella meta l'avevo segnata", continua a ripetere. A credergli sono sostanzialmente tutti i neozelandesi, in primis naturalmente i compagni di squadra. In Galles, invece, la pensano in modo diverso: la storia si tramanda dai padri ai figli, e la versione si chiude sempre alla stessa maniera: "Non era meta". Per questo Deans cercò, attraverso i giornali, testimonianze soprattutto in Galles, dove molti invece giudicano esatta la decisione dell'arbitro Dallas di non concedere la meta. Ma a Bobby restavano poco più di due anni di vita. E persino sul letto di morte, non rinunciò a rivendicare quella segnatura contro il Galles, "I really scored the try".
La questione era ben lontana dall'essere risolta.
Insieme alla meta, infatti, anche quella frase di Bob non viene dimenticata: qualche anno dopo, nel 1924, gli All Blacks tornano in Galles. è la seconda tournée dei neozelandesi in Gran Bretagna. Per l'occasione viene allestito uno speciale banchetto: tra gli invitati alcuni dei giocatori protagonisti del primo tour dei Tutti Neri, insieme ai loro rivali della partita all'Arms Park di Cardiff. Tra questi c'è Morgan, l'autore dell'unica meta di quella partita, oltre che del placcaggio su Deans. Sono passati anni, ma il gallese non fatica a riconoscere uno degli avversari di quel giorno: Billy Wallace, l'ala degli All Blacks che aveva dato il via all'azione più controversa della storia.
Si trovano seduti a due tavoli: Morgan prende il cartoncino del menù, scrive poche righe, lo fa avere a Wallace. Billy, letto il messaggio, alza gli occhi verso quel leale ex avversario. I due si sorridono. Quel cartoncino è oggi conservato nel museo del rugby in Nuova Zelanda. Sopra c'è scritto: "A Billy Wallace da Teddy Morgan. Bobby Deans ha veramente segnato a Cardiff nel 1905".
Quella partita, giudicata dal giornalista neozelandese C.C. Reade come "la più bella della storia del rugby", era finita. E Bobby Deans, diciannove anni dopo, aveva finalmente riavuto la sua meta.